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Canfield Gardens

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Ci sono viaggi che ho immaginato fin dal momento in cui ho avuto cognizione di poterlo fare. Di immaginare. Dunque di viaggiare. E in quel tipo di cammino è accaduto di perdermi negli anni dell’adolescenza. E rifugiarmi tra incroci lontani, coccolato da suoni distanti e pertanto migliori di quelli che il quotidiano mi costringeva ad ascoltare. Io Londra l’ho visitata un numero infinite di volte, attraverso gli occhi della musica che mi ha portato ad uscire dagli anni di cambiamento e di reclusione che hanno costituito l’adolescenza.
Dal primo all’ultimo vagito ci ritroviamo tutti prigionieri dei nostri corpi. Vite compresse. La natura e il caso ci hanno riservato vasi entro i quali fare scorrere la linfa dei nostri pensieri e dei dolori che mescolati al resto compongono ciò che chiamiamo anima. E la mia è arrivata a ricongiungersi al tempo in cui ogni cosa mi sembrava possibile e più difficile appariva più mi andavo ad infilarci dentro.
Il passato e il futuro giocano spesso ad incontrarsi, si rincorrono come bimbi dispettosi fino a quando convergono sincronicamente in un unico punto. E disegnano il presente che cavalchiamo. Certo molta gente zampetta, altra scalcia, altra ancora se ne sta ferma alla stazione in attesa di un treno migliore. Che non passerà mai.
Di treni e corse ne ho cambiati.
Oggi, come un modesto Ulisse, approdo alla mia Itaca e nei suoi occhi mi placo.
E da quegli occhi mi muovo, verso strade migliori.
“Can” in inglese da il senso di una possibilità. Di poterlo fare. Slogan d’ogni sorta si sono costruiti attorno a queste tre lettere, molti di carattere vincente, altri ancora d’enfatica stupidità.
Il poter fare include il senso di un’azione, che sia essa nel bene o nel male fatta.
In Canfield Gardens scorgo il viaggio possibile di un quattordicenne che a distanza di tempo, di quel batter di ciglio nello sconfinato infinito dell’eternità, ritorna a sé.
Io Londra l’ho visitata centinaia di volte e adesso ci sono dentro. Tra le strade e le facce del mondo, cangianti fino al prossimo incrocio. Con tutte le voci del mondo che si accavallano, in un crescendo sonoro. E si rimane muti, dentro un bus di linea che scivola via in un traffico metropolitano di sconcertante ordine, ad ascoltare accenti e colori lontani, tanto lontani da essere a portata di un saluto, un cenno, un sorriso, condiviso.
Weistminster e il campanile che si stagliano oltre il consueto grigiore di nuvole e pioggia. Ché per quanto possa brillare il sole a Londra è sempre necessario munirsi di un provvidenziale ombrello. Le fontane di Trafalgar Square e il putto di Picadilly. L’impeccabile cancello del palazzo reale e la storia stratificata della pittura mondiale che si abbraccia in uno sguardo alla National Gallery. E decine di folli che con la mano tesa verso una direzione fermano il traffico in un punto preciso della città, in una strada. Simbolicamente divenuta la Road di quella città senza aver entro l’arco di metri nessun monumento da potersi ritenere tale, ma soltanto delle strisce pedonali. Il passaggio da un lato all’altro, che anni fa quattro giovanotti dall’incedere elegante hanno calpestato.
E poi Garden Lodge e l’infantile idea di scorgere su quel marciapiede i suoi passi, e l’illusione di poter ascoltare nel quieto silenzio di un quartiere residenziale la voce di un’adolescenza perduta.
E sopratutto Lei, che mi sospinge su per ogni strada, verso il prossimo bus, verso il prossimo viaggio.


Il tempo sprecato e’ il tempo in cui muoio.
Diario di uno scribacchino:
massimilianocitta@gmail.com

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