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Categoria: Lettere

Lettera a me stesso


Carissimo me, forse in qualche modo continuo a scriverti ma non riesco a lavarmi il cuore, né le ferite. Neppure il puzzo di fritto che porto addosso dall’infanzia scivola via, per quante parole riesca a mettere in fila.
Seduto.
Qui, gambe distese, schiena piegata in barba alla perfetta postura, e braccia tese, e mani in cerca di una donna distante. Seduto a sentire l’eco di un battere incessante. E non è la tastiera che freme, ma i miei denti che non la smettono di tremare. Forse il freddo della verità li tiene svegli, a batter il tempo di una musica che non riesco ancora a capire.
Non sono stato in grado di metter su un centesimo, neppure di decorare la mia bacheca con un titolo onorifico, uno di quelli che faccia gridare meraviglia. Ammirazione, e lode. Figlio di viandanti caduti in disgrazia. Nell’errore di un destino migliore che non hanno deciso d’avere, eppure poche lacrime e sospiri d’un vagito a venire hanno tracciato la strada del loro cammino.
Ho fatto migliaia di lavori, come prima mio padre, e prima ancora mio nonno, e credo forse suo padre. Ho lavorato nei giorni di festa, ma non ho concluso mai la paga d’un mese. Fuggito via prima che da qualche parte una stridula voce potesse dire “bene, assunto, confermato, ci vediamo”. Via, prima che il giorno divenisse prigione del mio disordine. Via, in panne, come un’auto dal fascino antico che non ne vuol sapere di fare strada e andare.

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Lettera di presentazione


Avevo scritto una lettera molto arguta, ironica. La ritenevo assolutamente efficace come lettera di presentazione. Ne ero certo. Più scorrevo quelle poche righe, più mi rendevo conto che per come riuscivo a presentarlo, il romanzo, non avrei dato scampo a chi avesse messo gli occhi addosso al primo foglio. Quel primo significativo foglio che conteneva in sé tutto il malloppo di pagine messe giù quasi di getto in pochi mesi, ma elaborate nel corso di non ricordo più quanti anni.
Era il capolavoro delle lettere di presentazione.
Anche perché non era affatto una lettera di presentazione.
Non presentava nulla.

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Lettera dalla maremma


La notte scende lieve, ma sa di far rumore, e forte batte dentro me.
Tra le fronde dei rami, nella distesa di cipressi che si muove oltre le fragili pareti di casa, il vento s’insinua e non sa dormire.
E gioca e ritorna, e sale lento per poi scagliarsi con foga contro le foglie che vorrebbero trattenerlo, ma si rassegnano a vederlo fuggire via, in attesa che ritorni.
Come me.
Il vento.
Bofonchia che non è questo il modo di vivere, di tirar al mattino prima che il sole si svegli e colori la strada, con le dita intirizzite dal gelo, che poco sanno di quel che toccano, e poco riescono a distinguere nel freddo dell’alba che ancora deve giungere. Il vento dice da giorni a modo suo che non è bene ritornare la sera quando le ombre confondono foglie e occhi spenti. Il vento, che nonostante se ne stia in giro per la gran parte del giorno sa di non esser solo quando la pioggia inizia a scendere, a mescolarsi, a danzare per l’aria, a svegliarti nel tepore di una notte troppo presto spezzata dal trillo insolente di una voce meccanica che mi invita a mettermi in cammino.

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