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Categoria: Funambolo

E mi rivedo bambino dentro scarpe sfondate

Non c’è sentore di natale in questa stanza. Ne ho trascorsi di diversi in vita mia, forse troppi da qualche parte potrebbero dire. Troppi di natali vissuti in giro per il mondo, volta dopo volta lontano dal posto che in qualche modo avrei potuto chiamare casa. Troppi e tanti vissuti in malomodo, ma a ciascuno riesco ancora nella memoria ad assegnare un sapore, un gusto preciso.
Qui dentro no.
Non c’è sentore di natale in questa stanza, eppure natale è. Lo dicono alla tele, si sente l’eco lontano di qualche cherubino che intona il tipico canto, ma non scorgo lume di candele rosse a segnare il cammino, né tavole imbandite a festa. Mi sono ritrovato spesso seduto presso tavole riccamente assortite dei più pregiati ritrovati culinari che non vedo più intorno. E in questo letto d’ospedale non riesco a scrollarmi di dosso l’infanzia e il gusto delle piccole modeste razioni di un cibo da condividere nella sacralità della famiglia, quella famiglia che non ho mai avuto.
Adesso avverto solamente la pesantezza del mio respiro.
E socchiudo gli occhi.

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Waltzing Matilda

27 luglio 1944. Lecce, Italia.

Fratello mio,

Non pensavo ci si potesse arrampicare tanto in alto. Da questa prospettiva potrei seguire il volo delle aquile se ci fossero aquile nei dintorni. Ma nulla di tutto questo, soltanto terriccio e sterpaglia. Il classico posto abbandonato da dio. E fin qui nulla di strano, lungo la strada ne ho incontrate di cose che il buon dio ha dimenticato. Sono giorni di tempeste, in cui tutte le cianfrusaglie, come schegge impazzite, ritornano a galla dalla merda nella quale erano state seppellite. Zombi. Morti che ondeggiano cullati da venti di guerra. Così oltre ad essere stata cancellata dalla mappa dei disegni divini, questa terra, avvinghiata come un’amante gelosa alla sua roccia, è stata pure messa nel dimenticatoio dagli uomini. Comunque sia, adesso, io sono qui. Sudato come non mai, con l’elmetto che non ne vuole sapere di stare a posto e questa ferraglia che pesa come un carico di cemento appena impastato. Comunque sia, ancora, sono qui, in compagnia del mio rigido tenente, uomo dai solidi principi morali che raramente si domanda perché, e va, seguendo la strada che altri tracciano per lui. Signorsì. Frank dalle spalle larghe e la risata grassa, Frank che talvolta senti bestemmiare col suo strano accento del sud, perché la ricetrasmittente non da segni di vita. Siamo qui, io e Frank braccati dal sole e da quattro mitraglie nemiche che siamo certi salteranno fuori da questa sterpaglia.

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Rue de Belleville

A Parigi l’inverno è più freddo se nulla hai per scaldarti la pelle. A Parigi dicembre è gelido con i senza tetto. Gli artisti di strada questo sono in fondo. Senza tetto. Gente senza un tetto stabile che accolga la loro fatica.

Quattro mura fredde non sanno che farsene di canzoni, e numeri da circo, brillanti battute e mirabolanti piroette. Quattro mura fredde non hanno calore, non sanno neppure applaudire. Quattro mura fredde, fredde rimangono, e freddo tutt’intorno ti lasciano addosso. Il puzzo di povertà te lo senti dentro le ossa, e insolente non ti abbandona mai, per quanto sapone tu riesca a racimolare elemosinando te ne rimarrà traccia sulla pelle.

Della povertà dico.

Di quello stato che ti marchia fin dalla nascita come una bestia da macello. Una sensazione che mai t’abbandona, perché sai benissimo cos’è, cosa vuol dire la miseria sugli occhi e nelle orecchie, sui capelli sozzi di polvere e sulle dita scarnificate dal cibo che non c’è. Sai bene cos’è la povertà se nella povertà sei nata, e hai paura di ricaderci dentro, così come accade per l’alcol lasciato andare senza ritegno nella speranza che ti tiri su o per le droghe che ingerisci nella stupida illusione di ritrovarti più leggero nel cammino e con leggerezza affrontare le miserie del mondo.

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Eleonor e le gardenie

Ed eccomi nuovamente qui. Ancora una volta. Mai abbastanza. Per quanto si possa dire mai più, non avrai la certezza di chiudere. Di darci un taglio. Di voltare pagina una buona volta. Non è così che vanno le cose quando ti ritrovi a dipendere. Accade con le persone, con i ricordi, con quello che ci ostiniamo in maniera patetica a chiamare emozioni. Con la roba. Non è come quando al mattino ti alzi e dici mi va di farmi un toast, ed ecco bell’e pronto in pochi minuti, o magari dici preferisco sorbirmi un bel caffèlatte, pentolino sul fuoco latte quanto basta e un goccio di caffè memoria dell’altro ieri. Sul fuoco ti ritrovi tu, e poco per restare memoria. Non è così semplice, non lo è affatto.

Smettere.

Ché in fin dei conti tu pensi di farlo, e ci riesci anche. Giorni, settimane, mesi. Perfino anni, e poi d’improvviso, come un temporale ad agosto rieccoti lì. In una surreale e grottesca questua. Racimoli ogni spicciolo, ti frughi lungo le tasche del nuovo cappotto alla moda che hai trovato nel tuo già ricco guardaroba e via. Poi finisci di cercare spiccioli, ché sai di non averne più. Ed inizi ad elemosinare tra la gente che ti circonda, chiedendo a quelli che pensi ti possano voler bene.

A quelli che t’amano.

E talvolta nei rari momenti di lucidità, quando sei presente a te stessa, finisci per chiederti stupidamente come una bimba di fronte l’esistenza di babbo natale, ma m’amano davvero? Tutti in fila, davvero m’amano? E poi, con un sorrisetto che non saprei definire concludi che sì. T’amano. T’amano fino a tal punto da fornirti da sé di roba. Ti riempiono come un tacchino farcito e tu sei bell’e contenta. Fino alla prossima dose. Io ho smesso, e poi ripreso. Adesso sono qui. Con la profonda convinzione di sapere che è l’ultima volta. L’ultima volta che ci casco. Ma anche prima, prima che finissi in questa lettiga d’ospedale m’ero ripromessa la stessa cosa. Le mie promesse non valgono granché, me ne rendo conto. Mento a me stessa, anche quando non ce ne sarebbe di bisogno.

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Landmark Motor Hotel


Avrei voluto abbracciarli tutti, prenderli e tenerli per mano insieme in un sogno unico e senza fine. Eppure ogni cosa è destinata a divenire niente, lentamente, come un urlo senza voce che striscia dentro.
Così finisce un amore soffocato dal silenzio.
Averci un blues.
A volte penso che quel silenzio, tutto quel silenzio che mi passa dentro, e attraversa la mia mente da parte a parte, e accompagna i miei pensieri, tutto quel maledetto silenzio non sia altro che musica tanto assordante da confonderti le idee. Le schiaccia alle pareti e hai voglia a staccarle e rimetterle in piedi com’erano.
A guardarti allo specchio non riconosci che rughe e cicatrici.
Certi suoni che non avresti mai immaginato. Da lontano ascolti echi di pensieri che non riesci ad afferrare dentro il tuo quotidiano, non ne hai la forza, eppure quelle voci le hai sentite, da qualche parte.
Almeno credi.
Voci distorte e ubriache, lamenti e singhiozzi e sentimentali riff s’accavallano, s’inseguono al ritmo lento e morente di un blues ormai lontano che prima t’accompagna, illudendoti, e poi, senza che tu te ne accorga, senza che tu abbia nemmeno il tempo di sorridere o piangere o che so io bestemmiare, senza tempo né battito, quel blues del cazzo ti lascia per terra e se ne scappa via.
Come fosse stato un uomo.
Bleah!!!
Silenzio.

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You gotta pay the dues, if you wanna sing the Blues



Andavamo in giro per gli stati. Talvolta ci scambiavano per zingari in viaggio. Come piccole carovane multicolori e strombazzanti passavamo per i centri delle cittadine incitando la gente a uscirsene fuori dalle abitazioni misere. Erano periodi di miseria in cui tutto sembrava piegarci le ossa verso la polvere delle strade. Pochi vestiti ad addobbare molte anime in pena, senza un lavoro certo, senza una paga certa per far fronte a certi debiti, senza un vita certa per far fronte a certi peccati.

Andavamo in giro per gli stati, ed era un bel viaggiare.

Carovane di musicisti, mai sempre gli stessi. C’era sempre qualcuno che abbandonava lungo il viaggio. E dava il bel servito. Magari aveva in qualche ospedale sperduto del profondo sud la moglie sofferente di doglie, magari aveva ricevuto un offerta migliore, una scrittura in qualche orchestra di rilievo, magari aveva finito i soldi per la roba e senza non era nemmeno capace di dare un passo, magari aveva litigato con qualcuno e mandato a fanculo il resto.
C’era sempre qualcuno che abbandonava il viaggio, come se morisse in quel nostro cammino comune.

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