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Manè


“Se parli di Pelè a un vecchio brasiliano
questi si toglie il cappello per un senso di devota gratitudine.
Se gli parli di Garrincha,
il vecchio si mette a piangere.”
detto brasiliano.

Sulla spiaggia di Rio soffia un vento imponente. È difficile tenere gli occhi aperti, la sabbia li bombarda d’improvviso, senza difese. Come piccole schegge impazzite i granelli vanno e vengono, e ruotano attorno e tu non sai come fermarli. Credi per un attimo d’averli in pugno, di poterli in qualche modo afferrare, ed ecco che scivolano via, pochi passi oltre il tuo.
Meglio lasciare chiusi gli occhi per evitare di scorgere l’opera del tempo che ha devastato impietosamente quelle corse. Meglio stringersi forte al ricordo per non sentirsi devastato nello spirito. Meglio assaporare con gusto una bottiglia di ottimo cachaça. Quella sì puoi tenerla a bada. Vicina a te, senza nessuna angoscia, né dubbio, che in qualsiasi istante possa tradirti. Rimane fedele, magari svuotata d’energia, ma pronta a tirarti su.
Meglio chiudere gli occhi e tornare a ricordare.
Li sento ancore urlare.
Come se fossero qui accanto a me, ad incitarmi. A migliaia assiepati lungo le gradinate nude. Li vedo issarsi, come fiori impettiti in un campo colorato. E le loro braccia al cielo a rincorrermi con lo sguardo.
L’unico modo per tenere il passo.
Il mio.
Quando Nilton Santos mi prese per il bavero della magliettina e mi scaraventò a terra rimasi a fissarlo. Non capivo perché imprecasse. Né perché si sentisse umiliato. Io giocavo, e quando giochi non v’è mai l’idea di umiliare qualcuno. Così come accade quando ami.
L’amore e il gioco sono la stessa cosa.
Bisogna divertirsi.
Se subentra la sofferenza allora diventano altro. E non fa più per me.
Li sento ancora urlare. Un nome. Il mio.
Ed incitarmi a farlo. A correre sotto le gambe di chiunque provi a prendermi. Li sento anche imprecare, alcuni. Offendere, me, mia madre, quello che è stato, le mie gambe. Ma di quelle molti hanno timore. Hanno paura delle mie gambe, così diverse tra loro, così sbilanciate, così grottesche.
Eppure riverite.
Su quelle gambe sguscianti sono stato un dio.
Un dio umano, troppo umano.
E come accade per tutti quegli dei venuti fuori male, che più d’una volta muoiono in una vita, con estrema facilità sono piombato a terra, e con la stessa forza che m’ha sparato in alto sono ricaduto, sprofondando.
Ed in questa mia bizzarra parabola ad effetto ho avuto amori, tanti, troppi. Mal gestiti.
Energie dissipate lungo campi sterminati. Sempre teso a correre senza capirci granché.
Ho assaporato tanto, tutto e male. Senza capirci molto. Ma ho ancora in me l’eco delle loro grida, lì, tremanti e forti, ad incitarmi. Le mie donne, ed io tra le gambe, ad istillare vita, e poi ancora, e ancora e ancora e ancora fino a sfinirmi. Figli lasciati in balia della loro solitudine, misera, mai tanto grande quanto la mia.
Perché nessuno mi ritrovo accanto adesso.
A lungo ho ubriacato gli avversari e nei giorni rimasti ho deciso d’ubriacare me stesso per non essere vinto dal tempo.
Ma una vita non è molto più di una partita. Forse dentro ce ne puoi mettere qualcuna di troppo, forse riesci pure a farlo, ma alla fine tutto si conclude.
Solo, a passo di lumaca, su una sedia che scivola grazie ad un po’ d’olio lasciato scorrere sugli ingranaggi, scivolo verso il letto che m’accoglie in queste notti di vento.
L’estate s’alza cocente sulle mie spalle piegate. E in questo corridoio mesto, spinto da un silenzio inquietante, non avverto più il formicolio della sua musica. Voce roca che per tanti anni ha saputo coccolarmi, tenermi sveglio nelle notti di paura. La sua voce veniva piano a me, e m’addormentava dalle fatiche di ogni incontro.
Io, lei, gli avversari.
Tutto sapeva acquietare tra le sue gambe. Così come le mie irriverenti deliziavano la gente.
Dio m’ha donato un passo veloce, scattante e irridente.
Ho sorriso a tratti, perduto e vinto nell’ebbrezza di una giocata fulminante, ché la gente rimanesse stordita dal mio ardire. Ché le donne urlassero di gioia del mio ardore.
Adesso mi spengo, come un granello di sabbia nascosto nell’immensità delle spiagge di Rio, ma il mio nome corre nella memoria, tanto veloce da non poter esser afferrato.
Provate a prenderlo.

[10 gennaio 2011]

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