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Giosuè Calaciura

L’ospite odierno di “Cinque domande, uno stile” è il giornalista e  scrittore palermitano Giosuè Calaciura. 
Esordisce con Malacarne (1998, Baldini e Castoldi, vincitore del Premio Rhegium Julii per l’Opera Prima) cui seguono, tra le tante opere, “Borgo vecchio” (2017, Sellerio, vincitore come miglior romanzo straniero del Prix Mediterranée), “Il tram di Natale” (2018, Sellerio) fino all’ultimo romanzo “Io sono Gesù” (2021, Sellerio).

 

 

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

L’Idea – come la chiami tu – è la sintesi di un sussulto etico (magari con la coda dell’occhio), un suggestione formale, un’adesione poetica, un’idea linguistica. Quando avverto questa congiunzione ho la consapevolezza di addentrarmi in un sentiero. C’è curiosità, elettricità, la sensazione di avere afferrato il capo di un gomitolo che dovrò dipanare per distenderlo tutto. Di solito non vedo l’ora di mettermi a scrivere.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Io penso che sia necessaria. Spesso non per chiudere la narrazione ma per indicare a me stesso e al lettore che lai storia, l’invenzione linguistica, il futuro dei personaggi che ho raccontato continua in quella Patria delle narrazioni a cui tutti apparteniamo, dove tutti, confondendoci, diventiamo lettori e autori.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

No. Anche oggi continuo a diventare scrittore nel momento in cui mi metto a scrivere. Sono giornalista quindi la scrittura è stata a lungo strumento della mia professione. Solo quando ho fatto il cuoco nel ristorante che avevo aperto quando chiusero L’Ora, il giornale dove lavoravo, ho sentito la “necessità” di mettermi a scrivere. Ma non l’ho mai avvertita come un destino.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Lo stile è un grimaldello per attraversare la narrazione. Certo, alla lunga può diventare una prigione, un espediente rassicurante, persino un paraocchi. Anche per questo nel mio ultimo romanzo “Io sono Gesù” ho spezzato quei meccanismi della scrittura che mi erano diventati propri, che mi connotavano. E’ stato un lavoro di vero artigianato narrativo che mi è servito, ha eliminato incrostazioni e ruggini che sentivo limitanti. Ho sconvolto davvero il mio “stile”. Quello che sto scrivendo adesso mi sembra diverso. Forse per l’età che avanza, forse per maggiore esperienza. Gli ingredienti e gli strumenti della mia scrittura, la tensione poetica, il costante tentativo di piegare la prosa al verso, l’effervescenza sperimentale sono ancora fortemente presenti ma mi sembrano più affilati ed efficaci.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Raccontare dovrebbe essere sempre un gesto politico. Ma non sempre lo è. Anzi, spesso mi accorgo che in quella che chiamiamo letteratura contemporanea c’è una forte componente conservatrice: un continuo spostare lo sguardo sulla ferocia delle nostre vite, sulla ferita dell’ingiustizia che sembra ormai insanabile, sulla costante della disperazione maggioritaria verso pascoli della narrazione e verso scritture imbelli e innocue. Forse chi scrive ha paura dell’irrefrenabile avanzata della letteratura tecnologica, dei serial, dello streaming. Per me la narrativa scritta ha una sua ineludibile necessità purché lavori nel suo specifico: la pagina è un laboratorio dove si inventa e si sperimenta. In questo momento i margini per incidere sulla realtà sono sempre più rarefatti e insufficienti. O del tutto assenti. L’Italia continua a essere in fondo alle classifiche per numero di lettori.

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