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La Peste di Camus

 

– Albert Camus, 2017 – Bompiani – pp. 326 – € 13,00.

Nell’epoca della pandemia globale, leggere “La peste” rappresenta un buon viatico di resistenza.

«Una delle conseguenze più vistose della chiusura delle porte fu infatti l’improvvisa separazione in cui si ritrovarono persone che a questo non erano preparate. Madri e figli, coniugi, amanti che qualche giorno prima avevano creduto di dover affrontare una separazione temporanea, che si erano salutati ai binari della nostra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi dopo qualche giorno o qualche settimana, cullati dall’assurda fiducia umana, a malapena distratti con quella partenza dalle preoccupazioni abituali, si videro d’un tratto inesorabilmente lontani, impossibilitati a ricongiungersi o a comunicare. La chiusura era infatti avvenuta qualche ora prima che il provvedimento prefettizio fosse reso pubblico ed era naturalmente impossibile prendere in considerazione i casi particolari. Si può dire che il primo effetto di questa brusca irruzione della malattia fu di obbligare i nostri concittadini ad agire come se non avessero sentimenti individuali. Sin dalle prime ore del giorno in cui l’ordinanza entrò in vigore, la prefettura fu assalita da una folla di persone che, al telefono o al cospetto dei funzionari, esponevano situazioni ugualmente interessanti e, insieme, ugualmente impossibili da esaminare. In verità, ci vollero parecchi giorni perché ci rendessimo conto di trovarci in una situazione in cui qualunque compromesso era impossibile, e che le parole “transigere”, “favore”, “eccezione” non avevano più alcun senso.» [pp. 77-78]

«Sapevamo allora che la nostra separazione era destinata a durare e che dovevamo imparare a scendere a patti con il tempo. Da quel momento ritrovavamo insomma la nostra condizione di prigionieri, confinati nel passato, e se pure alcuni di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, ben presto vi rinunciavano, per quanto era loro possibile, provando le ferite che l’immaginazione poi infligge a coloro che di essa si fidano.» [p.82]

«… più che vivere galleggiavano, in balia di giorni senza direzione e di ricordi sterili, ombre erranti che avrebbero trovato forza solo accettando di radicarsi nella terra del loro dolore.» [p.83]

«Nonostante questi spettacoli insoliti, sembrava che i nostri concittadini avessero difficoltà a capire ciò che stava accadendo loro. C’erano sentimenti condivisi come la separazione o la paura, ma tutti continuavano a mettere in primo piano anche le preoccupazioni personali. Nessuno aveva ancora davvero accettato la malattia. Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste. La loro prima reazione, per esempio, fu di prendersela con la pubblica amministrazione. La risposta del prefetto alle critiche riprese dalla stampa (“Nonsi potrebbe prevedere un alleggerimento delle misure adottate?”) fu alquanto inattesa. Finora né i giornali né l’agenzia Infsdoc avevano ricevuto una comunicazione ufficiale con le statistiche della malattia. Il prefetto le trasmise giorno dopo giorno all’agenzia, pregandola di farne un comunicato settimanale. Anche in questo caso, però, la reazione dell’opinione pubblica non fu immediata. L’annuncio che nella terza settimana di peste si erano contati trecentodue morti rimaneva infatti qualcosa di astratto. In primo luogo, forse non tutti erano morti di peste. E in secondo luogo nessuno sapeva quante persone morissero alla settimana in tempi normali. La città contava duecentomila abitanti. Nessuno aveva idea se quella percentuale di decessi fosse nella media. Si tratta, anzi, del genere di dettagli di cui non ci si cura mai, nonostante l’indubbio interesse che presentano. In un certo senso, all’opinione pubblica mancavano i termini di paragone. Solo con il passare del tempo, constatando l’aumento dei decessi, ci si rese conto della verità. La quinta settimana si ebbero infatti trecentoventuno morti e la sesta trecentoquarantacinque. L’incremento, se non altro, era eloquente. Ma non era abbastanza elevato perché i nostri concittadini non serbassero, pur nell’inquietudine, l’impressione che si trattasse di un incidente certo increscioso, ma tutto sommato temporaneo.» [pp. 88-89]

«… quella sorta di spaventosa libertà che si scopre quando ormai si è privati di tutto.» [p.121]

«… le grandi tragedie, per loro stessa durata, sono monotone.» [p.192]

«Il sonno degli uomini, per gli appestati, è più sacro della vita. Non si deve impedire alla brava gente di dormire.» [p.266]

«E che è necessario prestare la massima attenzione per non rischiare, in un attimo di distrazione, di respirare in faccia a un altro e di passargli l’infezione. La sola cosa naturale è il microbo. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, in un certo senso sono frutto della volontà, e di una volontà che non deve mai venir meno. L’uomo giusto, quello che non infetta quasi nessuno, è quello che si distrae il meno possibile.» [p.268]

«… non ci sono giorni di festa per i malati.» [p.314]

 

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