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Massimiliano Governi

Massimiliano Governi, romano. Esordisce nel 1995 con “Il calciatore” (Baldini e Castoldi), partecipa alla fortunata raccolta di narratori “Gioventù cannibale” (Einaudi). Il superstite, 2018 (E/O) è il suo ultimo lavoro.

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Un’idea per me non è niente, uno scrittore deve diffidare delle idee, deve imparare a buttarle, o a dimenticarsene. Quando qualcuno mi dice: ho avuto un’idea, io già diffido di lui. Quindi non mi dà nessuna emozione avere un’idea, o trovare una storia. Comincio però a eccitarmi quando sento che, scrivendo, la lingua gira bene, come una trottola. E di solito gira finché ci si gioca, come fosse una trottola semplice o una trottola caleidoscopica. In quel caso è una bella sensazione.

 

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

L’ultima parola è importantissima. Riassume il senso di tutta la storia. E’ quella, solo quella, tutte le altre sono sbagliate, ma sta a te trovarla. Nell’ultimo libro che ho appena finito, un noir, sapevo che l’ultima parola doveva essere ‘buio’. E sono andato, fin dall’inizio, alla conquista e alla giustificazione di quella parola.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Non ho mai pensato, “devo scrivere”. Anzi, ho passato gli anni a evitare quel momento. Mi ricordo però l’istante in cui ho battuto sulla tastiera l’ultima parola del mio primo libro , cioè ‘cielo’ – e ho pensato: “ho finito di scrivere un libro”. E’ stato come quando da bambino raccolsi un sasso da terra e pronunciai per la prima volta il mio nome e il mio cognome, sentendo il dolore di scoprirmi un’individualità separata.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

No, anzi, per me lo stile è tutto. Lo pensava anche Flaubert. Non capisco quando qualche critico dice che succede poco in quel libro. Lo stile è già ‘un succedere’ in letteratura.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Insomma, da quando (e è da tanto) ogni gesto è politico, la tentazione è che scrivere non lo sia. Ma che sia gesto egoista, coraggiosamente singolare.

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