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Nicola Ravera Rafele

Nicola Ravera Rafele è l’ospite di oggi. Scrittore e sceneggiatore. Esordisce all’età di 15 anni con il caso letterario “Infatti purtroppo” (Theoria), cui seguono “Ultimo requiem” (Longanesi, 2014), “Il senso della lotta (2016, Fandango) e l’ultimo “Tutto questo tempo” (2019, Fandango libri).

 

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Per qualche mese di solito procedo per accumulo, senza essere sicuro di nulla. Poi arriva un momento, può essere dopo cinquanta o dopo duecento pagine, in cui sento di avere in mano la storia. Mi succede quando mi accorgo di avere capito completamente i personaggi. So cosa farebbero, come reagirebbero, in qualsiasi situazione. Solo allora so che il libro c’è. E si: è una bella sensazione.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Quando, come scrivevo rispondendo alla domanda precedente, hai capito i tuoi personaggi, diventa tutto più semplice. Ti lasci portare. Ti dicono loro quando è ora di smettere. A memoria, non mi è mai capitato di modificare un finale in seconda o terza stesura. Vuol dire che arriva in modo abbastanza naturale.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Voglio scrivere più o meno da sempre. Se non scrivo sto male. Ho la sensazione che il mondo mi sfugga, che il tempo passi troppo velocemente.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Secondo me non è mai immobile, lo stile. La voce cambia, si modifica con i tempo e seguendo le necessità di un racconto. Per “Tutto questo tempo”, ad esempio, ho cercato una voce diversa, adatta a raccontare trent’anni senza perdere il ritmo e il filo della narrazione. Quindi avevo bisogno di uno stile nervoso, in grado di modellare il tempo raccontando un anno in una riga e, magari, un pranzo per sei pagine. Per raccontare un’altra storia avrei trovato uno stile diverso, ma non è un processo consapevole. E’ un adattamento naturale che si sviluppa in relazione ai personaggi e alle loro esigenze.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

La letteratura è sempre politica. Costringe a guardare l’altro da sé, insegna a spostare il punto di vista, obbliga alla complessità del pensiero, sfuma i torti e le ragioni. Lo dico da lettore prima ancora che da scrittore.

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