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Massimiliano Città Posts

Di una bellezza leggera


I miei hanno provato in tutti modi, ma alla fine ho deciso io. La scuola m’era sempre venuta stretta, come un vestito che ti trattiene nei movimenti e li lega, e frena ogni libertà senza neppure coprirti in maniera confortevole. Certe volte hai la sensazione che ti venga a mancare l’aria, e arranchi nel vestito, e provi e riprovi ad allargare il colletto, soltanto dopo ti accorgi di non averlo, di non averlo mai avuto, forse, e il panico ti prende, perché non riesci a capire cosa stia a stringerti forte il collo. Credo sia il disagio, una presa invisibile che non ha colore né profumo, ma soffoca. Il disagio di una vita non tua che si ostinano a farti calzare.
Non appena ho potuto me ne sono uscito fuori.
Ho fatto un po’ di lavoretti in giro per la città, sono stato a zonzo, uno sbandato per molti, uno dei tanti in città. Faccendiere oggi, meccanico altre volte, perfino panettiere per qualche notte, ma gli orari, quelli lì, non riuscivo a mandarli giù, sebbene il gusto del pane appena sfornato sia una delle cose per cui vale la pena vivere in questa fogna.
Poi, ho camminato, e ho camminato parecchio per le strade di questa città, col pallino della lettura. Questo sì, m’è rimasto degli anni di scuola, tanto che mia madre me lo rimprovera ancora oggi. Su quei libri, sconci mi diceva, aveva scorto un po’ di Bukowski tra le mie carte, ne hai perduto di tempo, quando avresti potuto metterti davanti dei buoni manuali di legge e diventare migliore. Migliore forse di quello che sono, differente, ma non ho controprova, né mai ne avrà mia madre. Deve prendermi per quel che sono, e ogni santa domenica lo fa. Il pranzo concessoci dal buon dio è qualcosa cui non si può sfuggire, la scuola magari sì, ma la domenica, la domenica è sacra. E lì con mio padre a scherzare, con la malinconia nello sguardo, a ricordare di quello che ero, ragazzetto irrequieto, sgusciante per i vicoli malfamati, per i quartieri che pochi osavano sfiorare, ed io invece lì, dentro.
Conoscitore e conosciuto.

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Alla fine


Alla fine hanno hanno chiamato la puttanella. Di certo più adatta al contesto, senza ombra di dubbio. Con occhietti e forme da pin-up, avrà la scena tutta per sé. Hanno scelto la giovane emergente, a discapito della mia decrepita vecchiaia, che sei condannata a vedere ogni giorno, mia cara. L’hanno scelta bene, niente da dire. Luccicante, pronta a raccogliere le luci dei fotografi di tutto il mondo. Lì, schierati come un plotone d’esecuzione, in fremente attesa, magari di un passo falso, una caduta, uno scivolone dei regnanti senza corona che s’accingono a debuttare. Loro, in formazione d’attacco, pronti a colpire con proiettili fulminanti, che catturano il momento, s’illudono di farlo. Stanno impalati, anche per ore, puntando, rigidi sulle gambette, in attesa. Di un qualcosa che vada storto. Perché le grandi notizie nascono da lì, lo sappiamo, dai guai. Mai che uno scoop memorabile sia venuto fuori dalle bellezze del mondo, non lo ricordo, e non penso di sbagliarmi, magari, chissà, forse, come tutto. Che dirti? Sono caduta in errore molte volte e per questo non ho mai pensato di far la morale a nessuno, né di mettermi ritta in piedi, ferma sui miei saldi principi, a predicare. Il vento avrebbe sorriso delle mie parole, ne sono certa, si sarebbe impettito sugli alberi, sfrondandoli del superfluo, di tutto quel superfluo che le mie parole avrebbero caricato per la strada, la mia. Ho semplicemente provato a viverla questa donnaccia d’esistenza, che molto promette e poco concede, e ho cantato una manciata di blues, e senza ombra di smentita, non amo le false modestie, ecco, posso affermare che qualcuno di questi m’è uscito fuori veramente bene, sfido a farlo meglio di me, a cantarlo, dico, a viverlo, forse. Ho scelto mia cara, e sbagliato. Ma in una vita degna d’esser chiamata tale, in una vita vissuta, come dico io, è necessario sbagliare. La misura dell’errore ti da la grandezza della scelta, e poco male che le cose vadano a puttane, ne siamo

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Solo tu

Nessuno può salvarti se non tu stesso. Sarai continuamente messo in situazioni praticamente impossibili. Ti metteranno continuamente alla prova con sotterfugi, inganni e sforzi per…

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Viaggio immaginario di un giovane musico ateniese


All’epoca in cui si era soliti discutere per la strada, passeggiando verso l’agorà, abituale luogo di ritrovo delle menti più eccelse e dei mercanti più accorti della città, uomini rimanevano assorti in dissertazioni più o meno profonde sull’essere e il mondo, il denaro e l’affare, la bellezza e la sua idea; all’epoca in cui l’uomo sapeva di poter rispecchiare la natura in tutto quel che faceva, all’epoca in cui il dotto scherniva il fango e l’argilla e le mani che la plasmavano, all’epoca in cui tutto era imitazione, secondo canoni e armonie, e per nulla creazione, all’epoca in cui la musica era numero e non suono, a quell’epoca dunque, viveva un bimbo lontano da quel mondo, escluso dai rituali della città, il piccolo Meloi, privo della parola e senza riflesso negli occhi, si aggirava tentoni per i vicoli del borgo. La madre, una donna mite e gentile, lo accudiva, per quanto le era possibile con sentimenti che spesso si confondono: dedizione e amore. Il padre, un uomo immerso e rapito dall’alta società, impegnato su grandi orizzonti, per nulla partecipava alla crescita, e alle conseguenti vicissitudini del figlio.

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