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Sara Maria Serafini

Sara Maria Serafini è l’ospite di oggi di “Cinque domande, uno stile”. Milanese di nascita ma calabrese, ha pubblicato le raccolte di racconti “Ingoia la notte” (2015, Arpeggio Libero Editore) “Solfeggio in abbandono” (2014, Arpeggio Libero Editore). Ideatrice e direttore editoriale della rivista letteraria «RISME». “Quando una donna” (2019, Morellini) è il suo primo romanzo.

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Il processo creativo segue regole diverse per ogni persona. In me tutto comincia da un titolo – che il più delle volte viene ovviamente cambiato, quindi pensa che processo inutile! – e da alcune immagini, fotografie sbiadite che riemergono lentamente e di cui cerco di capire bene i dettagli. Poi si affacciano i personaggi. E con loro in testa trascorro tantissimo tempo, anche mesi, in cui non scrivo una parola. Cerco di sapere tutto di queste persone, perché se non conosci perfettamente la vita di qualcuno, non vedo come se ne possa scrivere. Alla fine, quando il romanzo mi è perfettamente chiaro, inizio.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Nessuna delle due. La storia decide da sola quando è il punto di congedarsi. Riprendendo il discorso di prima, quando scrivo non vado per ordine. Avendo la storia già tutta in mente, mi permetto di raccontarla a salterello, in base all’ispirazione del momento. Ad esempio, adesso, sto lavorando al nuovo romanzo, un gruppo di ragazzi, un po’ strambi e parzialmente disadattati che partono per un viaggio per chiudere i conti col passato (ne approfitto per farmi pubblicità, che non si sa mai!), mi mancheranno un cinque capitoli, ma ho già scritto la fine. La fine esiste già secondo me, poi ognuno trova il mondo per arrivarci.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”

Sì, lo ricordo perfettamente. Frequentavo il secondo anno di liceo, e quell’anno avevano indetto un concorso di scrittura interno alla scuola. Una cosa semplice, avevamo letto in parallelo “Due di due” di De Carlo, e si poteva partecipare con un tema sull’amicizia. Trascorsi pochi giorni dalla consegna degli elaborati sono accaduti due eventi quasi simultanei e completamente opposti. Una mattina è piombata in aula la professoressa che avremmo avuto dal terzo anno, una professoressa famosa per la sua severità, ha aperto la porta e senza neanche salutare (a lei era concesso tutto) disse: “Chi è Serafini?”, a me per poco non venne un colpo. Alzai la mano timorosa (perché ero e sono una grandissima insicura), lei mi fissò due secondi e uscì sbattendo la porta. Poco dopo appresi che era venuta a guardare in faccia la studentessa che aveva scritto il tema migliore della scuola. Il secondo episodio è accaduto una settimana dopo: venni convocata dal vicepreside, anche lui docente di lettere, una persona estremamente rigida, che senza troppi giri di parole mi disse che con quel tema non avevo speranze, che era pieno di ghirigori contemporanei e che non sarei mai andata da nessuna parte. Come dicevo, sono profondamente insicura su quasi tutto, ma la scrittura è sempre stata l’unica certezza della mia vita, per cui ho pensato semplicemente: “Io devo scrivere”. Ovviamente non ho vinto e oggi, col senno di poi, posso dirti che a soli 16 anni mi si era mostrato il panorama editoriale esattamente per quello che è: un momento, un gusto, l’esaltazione di alcuni, l’occasione giusta.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Oggi tutti sembriamo ossessionati dalla ricerca di questo fantomatico stile. Scrittori, lettori, editori. Tutti. Io credo che lo stile deve esistere, ma non deve esistere. Nel senso che è bello che uno scrittore abbia una sua cifra, qualcosa che qua e là, nel testo, te lo faccia riconoscere, come la sensazione di essere nel posto giusto, di non esserti perso. Ma, allo stesso tempo, non credo in quegli autori che lo fanno diventare un vizio, un modo in cui i loro scritti suonano sempre uguali, un artificio.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

La letteratura è un fatto sociale perché parla delle persone, e in quanto fatto sociale è denuncia e lente d’ingrandimento, quindi potrebbe essere di supporto alla politica, ma non credo che possa arrivare a divenire un gesto politico, se non in rari casi di denuncia. Anche perché, oggi, la politica stessa ha perso il dinamismo di un tempo e non ha più la forza per divenire gesto, quindi azione, infine fatto.

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