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Stefano Corbetta

Stefano Corbetta al suo secondo romanzo, dopo “Le coccinelle non hanno paura” (2017, Morellini), con “Sonno bianco” (2018, Hacca edizioni) è presentato al Premio Strega da Ilaria Catastini.

 

 

 

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Se è pronta per essere modellata significa che ha superato la prova del tempo perché non comincio mai a lavorare su una storia se non ne ho testato prima il grado di ostinazione. La sensazione è quindi di diffidenza iniziale, in qualche modo deve guadagnarsi la mia fiducia. Un’idea ha sempre una doppia faccia e per conoscerla davvero inizio con lei un dialogo costante che può durare settimane, a volte mesi. Capita di accoglierla, capita di abbandonarla, come con le persone.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Per me non è quasi mai evidente perché non ha a che fare con l’emotività, ma con un processo profondamente analitico. È frutto di selezione, ha a che fare con il suono, deve evocare e nascondere nello stesso tempo.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Ho sempre scritto, ma in modo incostante, preferendo dedicare il tempo alla lettura e allo studio. Recensivo libri e concerti su un quotidiano locale e su alcuni siti specializzati. La musica occupava molto del mio tempo. Poi una mattina di settembre di nove anni fa ho deciso che era arrivato il momento di voltare pagina, direi quasi letteralmente. Si trattava di dare una forma più precisa alle storie che mi pareva meritassero di essere raccontate.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Lo stile è sempre la summa di elementi diversi. Credo che abbia a che fare con il modo in cui guardiamo il mondo, è influenzato da ciò che leggiamo, risponde a idea di poetica che costruiamo con il tempo. Diventa un vincolo quando permettiamo alla scrittura di prevaricare la storia, e quando accade non è mai un bene: è una storia che dovrebbe dettare lo stile.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

La letteratura costringe le persone ad assumere punti di vista imprevisti, lo vedo tutti i giorni. Può accadere che un libro cambi il modo di guardare una determinata realtà o porti a considerare un’idea da una prospettiva differente. E se questo accade anche solo per una persona, allora ha necessariamente una ricaduta sulla società in cui questa persona vive. Scrivere, fare arte, è per sua natura un atto politico, può spostare cioè un’idea, e quindi il gesto. Troppo spesso vedo un atteggiamento di disillusione verso la narrativa contemporanea, un approccio che mi pare miope, un costume alla moda facile da assumere. Forse occorrerebbe più attenzione, liquidare con sufficienza la letteratura del nostro tempo rischia di diventare un atto antipolitico. Del resto non tutti avevano capito al loro tempo Flaubert e Joyce.

 

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