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Suonavamo bene – I cap.


Me ne sto qui seduto a rimestare nel passato. È quello che più so fare, non credo di produrre danni collaterali a starmene seduto, non penso di smuovere coscienze a rimestare indietro nel tempo, né di sconvolgerne altre. Viaggio sulla linea della memoria, salto, ritorno, riprendo, e talvolta riperdo. Forse più di alcune volte, forse mi ritrovo a perdermi ripetutamente, e forse è il prezzo che bisogna pagare per sentirsi legati a qualcosa, ancora per un po’.
Rimango qui seduto davanti ad un led lampeggiante che attende senza sapere perché. Da parte mia resto in attesa di scorrere quel filo fino a quando le parole lo rendano vivo agli occhi.
E non sempre accade.
Ci sono sensazioni che sai bene d’aver vissuto e proprio per quella intima consapevolezza tendi a nascondere a te stesso. Niente pantomime, niente inganni, né menzogne, sai benissimo com’è andata a finire e non vale la pena ripetere. Altre occasioni invece vorresti che fossero lì, nuovamente vive ai tuoi occhi, cariche di profumi e suoni, e nulla importa se i colori sono sfuocati nella tua mente.
Me ne sto qui seduto, provando a fottere il tempo, che crede d’essersi portato via gran parte di me e forse l’ha fatto davvero se posso aggrapparmi soltanto alla consistenza di una manciata di fogli stampati.
Ho un led lampeggiante grazie al quale solcare il cammino a ritroso e una bottiglia nuova di whisky che m’accompagna e la convinzione che c’è stato un tempo nella mia vita in cui potevo e la volontà la spuntava sul resto. Potevo tirare tardi fino alle prime luci dell’alba, potevo sfasciare il mio basso, o lasciarlo muto, perché potevo scegliere di farlo. Potevo decidere d’essere stanco perché in fondo non lo ero mai, potevo anche pensare d’esser triste perché nulla mi piegava lo stomaco e lei era ancora lontana dal mio orizzonte.
C’è stato un tempo vivo e vissuto in cui ogni goccia riempiva la mia esistenza, e il sudore mi rendeva libero. C’è stato un tempo in cui potevo seguire il filo sottile che mi univa al mondo circostante, e non v’era necessità di abbracci e baci e finti contatti. Sapevamo bene d’essere legati da un invisibile filo sottile, che soltanto a noi era concesso di scorgere.
C’è stato un tempo leggero, che soppesavamo dentro un mezzo bicchiere d’amaro, quel tempo che riuscivamo a trattenere tra le dita, illudendoci di poterlo sostenere, tirare, allungare, capovolgere.
Perché potevamo.
Potevamo sentire il rumore dei nostri passi e lo sfregolio delle monetine di bronzo contro il mazzo di chiavi che custodivamo nelle tasche. Potevamo sentire il vento che sussurrava per la strada, scuotendo fascinosi cartelloni imbonitori di vite e miracoli altrui. Sentivamo quel vento sollevare la polvere da terra e rimestare tra cartacce abbandonate, come piccoli mulinelli che, nel loro apparire innocui, serbavano nel profondo pericolosi richiami ai quali difficilmente si saprebbe sfuggire. Potevamo sentire roba del genere e qualcosa di più tra il silenzio che lentamente s’insinuava nelle nostre teste e l’andazzo quotidiano.
Non avevamo pensieri pesanti che ci assillavano, né idee rivoluzionarie di sorta, soltanto qualche riff che in maniera ossessiva non voleva saperne di lasciarci in pace.
Spesso comminavamo a tempo di musica, di quella musica che ci passava dentro.
In fila, tutti e cinque, uno accanto all’altro. Ciascuno con la sua andatura, chi dinoccolante sulle ginocchia malferme, chi impettito, schiena diritta e petto in fuori pronto ad esser fucilato, chi scivolava via sui suoi passi col timore di far rumore, chi sollevava le scarpe da terra spostando la polvere oltre la linea del cammino. Ad ogni modo battevamo tutti lo stesso tempo, mentre la gente con fare discreto scivolava verso i marciapiedi senza intralciare il nostro cammino, e ci osservava.
Così pensavamo che fosse.
Tiravamo tardi, e l’alba non ci sorprendeva più da un pezzo. Avevamo smesso da tempo di guardar l’orologio, uno qualunque dal quadrante anonimo che segnasse il nostro incedere. Non avevamo bisogno di scandire il ritmo di un’esistenza che scorreva via in un flusso continuo.
Musicale.
Da qualche parte ho letto che un tizio, credo un inglese, si domandasse, in un suo testo parecchio edotto, quanto potesse essere musicale l’uomo. Bella domanda, alla quale non so dare una risposta certa, ma posso assicurare che a quel tempo noi musicali lo siamo stati, fino al midollo. Lo scorrere del tempo non invecchiava i nostri pensieri, né scalfiva i modi, batteva semplicemente affinché potessimo sincronizzare gli assoli o gli insolenti silenzi che amavamo prolungare tra il disgusto di una platea che fino in fondo non avrebbe potuto comprendere quello che stavamo vivendo. Per quanto ci sforzassimo di mettere fuori il nostro essere musicale uno strato invisibile separava noi da loro.
Suonavamo bene, bene davvero.
Nel giro di pochi mesi eravamo riusciti a mettere a soqquadro una città dormiente. Per poco, forse, a detta degli altri, ma dal nostro punto di vista, dall’interno, dalle viscere smosse ogni volta che imbracciavamo i nostri strumenti, quelle giornate, quelle settimane così dense d’esistenza ci portarono a perdere la cognizione dello scorrere dei minuti.
La nostra parentesi, una delle tante che la vita disegna entro un raggio più o meno ampio, fu brillante. E continua a bruciare di luce propria ancora oggi, a distanza di anni.
Dentro ciascuno di noi.
E forse, aldilà d’ogni possibile pretesa, in queste pagine.
Iniziammo senza avere percezione della reale dimensione degli avvenimenti che ci investirono in pieno, deflagrando le nostre vite. Partimmo da quella città silenziosa e assente che rimestava nel torbido contemplando l’imponente teatro, e distrattamente scorgeva le onde del mare riversarsi a riva. Quella città fu squarciata nel petto dai nostri riff e dal tamburo battente, mentre la voce si alzava, provava a farlo, oltre gli spari che lentamente riuscivano a seppellire il nostro ardore, oltre le cariche d’esplosivo che covavano nel suburbo come un male difficilmente estirpabile. Eppure l’abbiamo scombussolata quella città, mentre, silenziosa e assente nella sua fissità, e distratta, vedeva scorrere qualche settimana musicale senza capirci granché.
Siamo riusciti a metterla a soqquadro quella cazzo di città dormiente.
Se avete avuto la possibilità di girare per la Sicilia alla fine dei rutilanti settanta, se eravate in giro per strada all’epoca, se le vostre scarpette linde si sporcavano della polvere alzata dall’immancabile scirocco, se avevate messo il vostro musetto fuori in cerca di sensazioni nuove, se il silenzio vi penetrava il cervello da parte a parte… allora cari miei è certo… avrete sentito parlare di noi. Beh, cari miei, avrete di certo sentito parlare di noi… chiunque lo faceva.
Chiunque aveva lasciato qualche incombenza di lato ad attendere; magari la commissione importantissima affidata dalla mammina, o l’esercizio di latino da completare, o la derivata prima che non ne voleva per niente al mondo di derivare fuori dal vostro cervello o, che so io, la rompicoglioni dalle tette sode che a lungo avevate inseguito, mollata come un’ebete davanti il marciapiede di casa, mentre gli amici strombazzando con le lambrette urlavano che al locale tal dei tali suonavamo noi… che non si poteva perdere… che ne aveva parlato la radio… che suonavamo come quegli inglesi, quelli che facevano blues, roba forte, e non si poteva perdere… urlavano di certo quei ragazzi strombazzando sulle loro lambrette… non so davvero cosa potessero urlare, ma sono certo che lo facevano e che avevano lasciato le loro cose da parte per venire ad ascoltarci.
E saltavano sopra i tavolini dei locali, dimenandosi con una bottiglia di birra in una mano e una cicca fumante nell’altra, e rotolavano scivolando sulle loro incongruità quotidiane.
Rotolavamo insieme verso l’alba.
Perché io ero lì.
Che spettacolo!
Che dirvi? Come dirvelo?
Se eravate altrove non è stata certo colpa vostra. Cercherò in qualche modo di riportarvi agli occhi e alle orecchie quello che è stato, e lo farò raccontandovi le parole e i gesti spesso inopportuni di un accolita di giovani imbevuti d’ebbrezza.
Un gruppo di musici che ebbe tra le mani il sogno della celebrità, lo assaporò fino in fondo e poi, come un bel tiro di marijuana, lo sputò fuori senza tossire.
Senza scomporsi, senza rimorsi.
Paff!

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