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Lampedusa

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S’alza e scivola, s’alza e scivola. E copre e riempie. E riempie e scopre. E scosta d’un passo la linea dell’orizzonte. E scosta d’un passo l’invisibile battezzata speranza. C’è una particella di tempo, un insignificante punto tra il nulla che spezza in due l’infinito e lo conclude. Da una parte all’altra. Lampedusa è un punto. Da una parte all’altra. Pontifica il dolore e la speranza. Tiene a levante raffiche di polvere e a ponente satura polmoni. D’acqua e sale.
Il ritorno è una costruzione mentale della razza umana come una retta qualsiasi che passa indenne tra un segmento e l’altro, come un dio qualunque che passa indenne tra la morte e il perdono. L’esistenza va sulla scia del tempo che scandisce ritmo e dispiega sincopi al calare della luce. C’è sole a Lampedusa d’ottobre. E caldo. Mentre il mare placido attende d’essere solcato da una parte all’altra, due signore rimangono a chiacchierare sul lettino addobbato per loro dal fusto di spiaggia che pianta e pianta ombrelloni sulla sabbia inerme. C’è un cane e poi un altro e un altro ancor. Vagano nell’infinito di una minuscola particella del mondo che alla stregua di un inconsapevole dio dispensa a levante speranza e a ponente dolore. Come centro del viaggio che s’alza all’alba della ragione e scivola nella ragione dell’odio.

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