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Lettera dalla maremma


La notte scende lieve, ma sa di far rumore, e forte batte dentro me.
Tra le fronde dei rami, nella distesa di cipressi che si muove oltre le fragili pareti di casa, il vento s’insinua e non sa dormire.
E gioca e ritorna, e sale lento per poi scagliarsi con foga contro le foglie che vorrebbero trattenerlo, ma si rassegnano a vederlo fuggire via, in attesa che ritorni.
Come me.
Il vento.
Bofonchia che non è questo il modo di vivere, di tirar al mattino prima che il sole si svegli e colori la strada, con le dita intirizzite dal gelo, che poco sanno di quel che toccano, e poco riescono a distinguere nel freddo dell’alba che ancora deve giungere. Il vento dice da giorni a modo suo che non è bene ritornare la sera quando le ombre confondono foglie e occhi spenti. Il vento, che nonostante se ne stia in giro per la gran parte del giorno sa di non esser solo quando la pioggia inizia a scendere, a mescolarsi, a danzare per l’aria, a svegliarti nel tepore di una notte troppo presto spezzata dal trillo insolente di una voce meccanica che mi invita a mettermi in cammino.
Non ho particolari blues che mi tengono compagnia in queste settimane, e la musica cui m’ero abituato manca da un po’. Non bisogna mai affezionarsi ad un suono, una melodia in particolare, un giro d’accordi che sai bene di poter trovare lì, dove cerchi.
Niente è per sempre.
La musica svanisce in una folata brusca. La musica svanisce, il vento se la porta via e lascia tristemente l’eco di ciò che è stata. Forse questo è il blues, o forse non saprei dire, se riesco ancora a sentirlo, a suonarlo.
Forse lo canto ma non me ne rendo conto, forse riuscirei ancora a farlo, ma la voce viene fuori muta da me, e mi ritornano in mente le parole ispiratrici di Bessie Smith e la sua preghiera laica che invita a pentirsi dei propri peccati per poterne cantare di altri.
Se vuoi cantare il blues devi pagare i tuoi debiti.
I miei li rendo quotidianamente, so di farlo, ma non a chi.
Scendo per la collina di una città marittima in cui un amico mi chiede dove sia mai stato il mare.
Scendo fino alla spiaggia, sul limitare di una primavera fredda che in maremma si fa desiderare.
Distrattamente il cielo s’apre, e come direbbe il poeta lascia nell’aria la voglia di pioggia a nascondere il sole,
distrattamente il sole abbraccia la sabbia e la scalda un po’.
Ma nulla che possa far male.
Passeggio per qualche decina di metri, mi siedo lungo un muretto ancora freddo d’inverno, e ritorno ad accendere una sigaretta dopo più d’un mese. Tutto intorno a me appare vecchio eppure così nuovo.
Poca gente per la via, come nell’immaginario classico il mare d’inverno dev’essere. Io col mio berretto tirato fin sotto le orecchie così simile ad un marinaio senza nave, ma con la voglia in ogni modo di salpare, apro le ultime pagine del libro regalo di natale, e mi accingo a concluderle. “Il giorno prima della felicità”, come se davvero se ne possa individuare uno, uno soltanto, come se davvero si possa indicare la felicità.
Una.
Finisco la sigaretta, e mi scorgo a contare le pagine restanti, ancora una decina, eppure la brezza insolente,
eco del vento che gioca con i cipressi su in collina, fastidiosamente solletica il mio volto. Manca ancora il sole e trattenermi vicino alla sabbia, manca ancora il calore che vorrei, mentre tutto ciò che mi circonda m’appare vecchio, eppure così nuovo. Accendo un altra sigaretta, e riprendo la lettura. con la coda dell’occhio osservo alcuni passanti intenti ad osservare, chissà cosa si chiederanno mai, chissà che idea sto suscitando nelle loro esistenze. Seduto, le gambe incrociate, un libro da finire, una cicca fumante, in compagnia della brezza eco del vento, qui in maremma sul limitare della primavera.

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