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Categoria: Funambolo

Il funambolo


(Illustrazione realizzata da Anna di Buono)

Non ci sono angeli a raccogliermi qui in giro. Eppure Mikael mi diceva che in qualche modo sarebbero giunti a sollevarmi da terra senza ch’io potessi accorgermene, ecco perché si parlava di angeli e non di esseri umani, perché ci sono ma non li vedi né li senti.
Aveva una voce profonda, e spesso, nel corso delle sue narrazioni bizzarre dava l’impressione che le parole date al mondo con una lentezza irritante, provenissero da molto lontano. Ma lo avevi lì davanti a te, a qualche passo, con una luce particolare negli occhi che si spegneva nel candore della barba folta e il suo ampio gesticolare che accompagnava la narrazione. Qualcuno accennava a prenderlo in giro, chiamandolo babbo natale, ma nessuno in fondo aveva il coraggio di pararselo di fronte. Talvolta i suoi scatti furenti ammutolivano la gente entro un raggio di centinaia di metri. Si diceva in giro che nella sua piena vigoria di gioventù ebbe a che fare con una ventina di tipi sbronzi freschi di taverna che per gioco iniziarono a puntarlo con epiteti violenti fino a colpirlo tutt’insieme. Si narra che nessuno di quelli tornò a casa sulle proprie gambe.
Aveva una forza incredibile a dirsi, e si sussurrava possedesse la coda, ma io l’ho visto senza costume e non m’è parso di scorgere nessuna coda, o altra roba del genere.
Mi adottò come un figlio dopo che di mia madre si perse ogni traccia, e sotto la sua ombra sono cresciuto. Io esile, fragile e piccolo, lui imponente e roboante in ogni gesto.

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Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri, porto i capelli neri


Nemmeno ve ne accorgete, ma vi stanno osservando. E più incauti vi muovete nella vostra quotidianità, più vi affannate a darci dentro nelle beghe di ogni giorno, nei salassi della vita, nelle bollette in fila da pagare, nelle mogli che vi cornificano col sorriso da santarelline, negli amici che non attendono altro che le vostre lacrime caschino sul piatto, più fate tutto questo, cioè vi distraete da loro, più detengono il controllo delle vostre vite.
Vite, direi parvenze, è molto più preciso.
Non esistono vite che loro non vogliano tali, dunque siete, siamo, sottinteso, parvenze della loro volontà. E non sono dei, niente affatto, ma controllori. Qualcuno incomincia a sussurrare che io stia diventando matto, crede che non senta, ma ho orecchie vigili, come da giovane mi muovevo in trincea, taccuino a portata di mano, pronto a raccontare. Allora ero disilluso e carico d’adrenalina, allora l’amore per la vita, la vita stessa mi distraeva da loro, e non vedevo oltre il palmo del mio naso. Mi specchiavo nella mia sete di potenza, nella voglia di assaporare il mondo, e distraendomi a questa maniera non scorgevo il riflesso dei loro occhi puntati su di me. Come su di voi del resto, sebbene in pochi credo possano fregiarsi d’aver avuto una vita intensa come la mia. Nessun senso avrebbe avuto tutto quel mio scrivere, le parole, i paragrafi, capitoli messi in fila uno dopo l’altro, se la mia pelle non avesse portato i segni di quelle esperienze, se la mia anima non si fosse nutrita di esse. Ho vissuto nonostante per gran parte della mia vita, distratto evidentemente da essa, non mi sia accorto di come loro mi osservavano, carpivano ogni mia mossa, anticipavano ogni pensiero, qualsiasi bagliore di volontà o assuefazione nei miei occhi loro lo vedevano bene, prima che io stesso potessi accorgermene.

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Un blues randagio


Ogni volta che sto per attraversare la strada penso a lui. A tutti gli anni trascorsi insieme, alle folli corse ad inseguire il vento, alle giornate in cui con lo sguardo radente terra provavamo a risollevare i nostri passi alla ricerca di qualcosa da mettere in pancia che potesse darci la forza per andare avanti. Ogni volta che piego la testa per scorgere il via libera ad un incrocio la sua immagine si posa sui miei occhi, poi come una lacrima cade. Fosse anche per un istante ma tutto questo avviene, e mi rattristo. Non vi nascondo che nel corso di una giornata m’accade spesso di passare da una sponda all’altra della strada, e non di rado guardo oltre il mio fianco, dove non ho ancora perso l’abitudine di ritrovarlo.
Lì, davanti a me.
Sopratutto nelle giornate di pioggia dove tutto diventa più difficile, in quelle giornate di tempesta in cui il vento solleva la polvere e la mescola all’acqua e disegna traiettorie di fango e luci che sbarrano il cammino, il ricordo di lui viene forte come il rombo di tuono che squarcia il silenzio delle lunghe notti di gelo.

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Ceneri sul marmo


Qui, ai margini di una siepe, oltre un filare muto di cipressi che ondeggiano a ritmo lento, i miei passi si fermano e non fanno rumore.
La custodia sulle spalle, vuota, nasconde il ricordo di quello che è stato, mentre la memoria, la mia, pulsa sulle tempie e batte forte, come a voler uscire dalla testa.
E mi fa male.
Il ricordo di lei.
Il sangue non si rapprende.
Denso e scuro viene giù da ogni parte e ho paura a respirare l’aria intorno per non sentirla entrare dentro, adesso che non respira più.
Il sangue non si rapprende, ancora.
Lo vedo scendere ovunque.
Corre sulle mani e in me si confonde. Non avrei potuto contenere la musica. Tutta la musica degli anni caduti via in un fulmine. Non sarei stato in grado di trattenerla tra le dita smagrite che mi ritrovo, e m’accorgo di non essere in grado di fermare nemmeno il flusso caldo che spegne la vita attorno a me.
Una lama gelida nella quale tutto si specchia e si conclude e si deforma e ritorna in un bagliore di luce impresso negli occhi, ma è solo un ricordo.
Ho esagerato stanotte.

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Io non sono un pesce


Non parlo bene, non mangio troppo.
Talvolta me ne resto muto a guardare oltre l’orizzonte.
Non mangio troppo e certe volte non c’è di che mangiare intorno. Proviamo a rovistare un po’ ma ai margini della città il vento è passato da un pezzo, e nulla ha lasciato.
Così ci muoviamo e andiamo verso altre strade.
E usciamo in mare.
Altri seguono i nostri passi. E non fanno rumore. Altri non hanno di che mangiare e si muovono. Senza far rumore, leggeri sull’acqua, come quel tizio che mi raccontano è stato capace di camminarci su. Sopra l’acqua dico, proprio come fanno gli uccelli, eppure senza volare, perché uccello non era.
Dicono fosse un pescatore.
Come me, come noi.
Non parlo bene eppure serve parlare. Per farsi capire, per dire al mondo che in qualche modo esistiamo, e il respiro che affolla la notte e la riempie di domande non deve passare in silenzio. Ma qui, in un equilibrio che non vuole saperne di placarsi, restiamo in ascolto del mare.
Non ho molta vita sulle spalle, né grandi peccati da farmi perdonare, per questo la sua voce non riconosco ancora. Il suono delle onde m’inganna, e spesso mi butta giù. L’orizzonte sempre uguale, e sembra d’essere perduti in un colore che riempie gli occhi come a soffocarli. E l’aria pregna di sale, e la brezza che non è mai gentile. Gentile con quelli come noi, che poco hanno da mangiare ed escono per altre strade. Ogni mattino. Prima che lo stesso mattino sappia d’essere vivo il nostro ansimare scroscia tra le onde e lì si perde, come se non fosse mai esistito.

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E il perché non so


Sento ancora l’eco del mio nome. Viene fuori dalle labbra di mamma in questa notte senza vento. E viaggia per il campo. Come un fiato tirato via, lontano. Ma se rimanete un po’ zitti riuscite a sentirlo anche voi. Mamma che dice Dragos, anche se non c’è la dolcezza di certi giorni in quella parola. Avverto un grido, come se la sua voce è spezzata dal pianto.
E il perché non so.
Immagino il mio nome sputato via dalla sua bocca passare attraverso l’aria fino a giungere a me, correndo veloce come spesso mi accade di fare. Lo vedo cavalcare, senza sosta, sempre più vicino, fin dentro le mie orecchie. E in quell’attimo, quando m’entra dentro, capisco che non è la voce della mamma.
E il perché non so.
Ma il mio nome, chiunque stia a nominarlo, sta correndo, lo vedo bene.
Mia sorella rimane indietro come spesso accade quando proviamo a gareggiare.
Li tengo tutti dietro, è la solita storia. Per le vie della città, nelle giornate di maggior confusione, quando in marcia, come commilitoni di una guerra perduta in partenza, andiamo in giro. Con le nostre borsettine sfondate, e le divise imbrattate dalla povertà, intrise di puzzo e sudore. Odori che la gente del posto evita di voler conoscere. Noi partiamo al mattino.

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Manè


“Se parli di Pelè a un vecchio brasiliano
questi si toglie il cappello per un senso di devota gratitudine.
Se gli parli di Garrincha,
il vecchio si mette a piangere.”
detto brasiliano.

Sulla spiaggia di Rio soffia un vento imponente. È difficile tenere gli occhi aperti, la sabbia li bombarda d’improvviso, senza difese. Come piccole schegge impazzite i granelli vanno e vengono, e ruotano attorno e tu non sai come fermarli. Credi per un attimo d’averli in pugno, di poterli in qualche modo afferrare, ed ecco che scivolano via, pochi passi oltre il tuo.
Meglio lasciare chiusi gli occhi per evitare di scorgere l’opera del tempo che ha devastato impietosamente quelle corse. Meglio stringersi forte al ricordo per non sentirsi devastato nello spirito. Meglio assaporare con gusto una bottiglia di ottimo cachaça. Quella sì puoi tenerla a bada. Vicina a te, senza nessuna angoscia, né dubbio, che in qualsiasi istante possa tradirti. Rimane fedele, magari svuotata d’energia, ma pronta a tirarti su.
Meglio chiudere gli occhi e tornare a ricordare.
Li sento ancore urlare.

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Un diamante senza luce

Credevano di essere degli dei, loro. Credevano che tutto gli fosse concesso. E non facevano altro che atteggiarsi. Mossettine e pettinature da idioti. Questo riuscivano a mettere insieme e null’altro. Eppure inchiostri a palate su quel gruppo, sulle rinnovate, sperimentali e ardite rivoluzioni sonore e cazzate d’altro tipo, questo scrivevano. Senza nessuno che fosse in grado di rendersi conto della verità.
Sono i giornali che costruiscono i fenomeni.
Ve lo dico io.
Sono i giornali che imbastiscono crisi economiche, e mettono in piedi governi fantoccio, e organizzano guerre lampo da sbattere in prima pagina e nascondono stragi e mostrano le loro interessate verità. I giornali e chi gli sta dietro a tessere le fila delle nostre quotidiane esistenze. Sono i giornali che pompavano quel gruppo e lo innalzavano a faro delle nuove generazioni.
E poi mi chiamavano musica quella roba là?
Dio santo!

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In volo, oltre la polvere

Dicono che non puoi sollevarti da terra. Dicono che non puoi nemmeno provarci se nasci col colore della mia pelle. Dicono che rimarrai schiacciato col ventre sull’asfalto. Dicono che gli uomini non sono tutti uguali. Dicono che c’è un dio maggiore ed altri minori, dicono che c’è un unico credo e le altre sono semplicemente mistificazioni.
Dicono tante puttanate in giro, e molti danno loro retta.
Dicono che mio padre era un poco di buono. Teatrante da quattro soldi in giro per le strade, lestofante dal mestiere incerto.
Dicono che m’abbandonò in fasce.
Dicono anche che mia madre si divertisse a far di me un’attrazione da circo.
Dicono tante puttanate in giro.
Dicono che l’eroina non è per gente in gamba. Dicono che se ti buchi, beh, allora è certo hai soltanto acqua nel cervello, e quell’acqua la porti in ebollizione fino a fonderti del tutto. Non dicono che nonostante ti ritrovi ogni sera a suonare in mezzo a centinaia di persone, te ne torni nella camera d’albergo solo come un cane randagio, senza nessun cuscino che tranquillizzi la tua inquietudine.

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