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Davide Enia

“Cinque domande, uno stile” ospita lo scrittore, drammaturgo attore e regista Davide Enia. Autore tra gli altri del romanzo “Appunti di un naufragio (di cui potrete leggere qui)” (2017, Sellerio), dei testi teatrali “L’abisso”, tratto proprio da quest’ultimo, “Italia-Brasile 3 a 2” (2010, Sellerio),  e “Maggio ’43” (2013, Sellerio).

(foto tratta dal profilo Fb dell’autore)

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Quando durante il processo di scrittura inizio a vedere la drammaturgia, inizio a vedere il romanzo, come se avesse davvero tre dimensioni, come se fosse una città con mura, sotterranei e prospettive, il passaggio successivo è quello di fidarsi delle parole che hanno costruito questa città e confidare in loro e riuscire ad abbandonarsi ad esse, perché ormai ciò che costituisce l’edificazione è stato costituito e i punti di fuga, le prospettive e le tramature di ciò che accade dentro, saranno sempre maggiori rispetto a quello che potrà essere il mio calcolo. Allora, inizia in quel momento l’abbandonarsi alle parole avendo fiducia in esse.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Anche per questa seconda domanda, rimando a quanto detto nella prima. Non è una consapevolezza, è un atto di fiducia nei confronti delle parole e al tempo stesso è un atto di fiducia nei confronti del lettore e del pubblico. Confidare che comprenderanno il senso che si voleva dire, ma al tempo stesso lasciare aperto uno spiraglio nei confronti di quella dimensione misteriosa che la parola stessa non può racchiudere mai.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
No, non mi sono mai detto devo scrivere. Ho scritto perché è un impulso che mi è venuto naturale. Non l’ho mai vista come una necessità assoluta. certo, poi scrivere ha il pregio che aiuta a fare chiarezza, se non altro.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile è il modo con il quale noi pensiamo i significanti, il ritmo, costruiamo la frase, ci appoggiamo e personalizziamo lo scontro. Il limite non è mai lo stile, è quanto il narcisismo ci porta a compiacerci di quello che scriviamo, quanto l’aggettivo che utilizziamo è più bello che giusto. La battaglia, quindi, è contro il proprio ego, sempre. Perché il sé riesce a fare emergere il narrato in una maniera sotterranea e al tempo stesso meno controllata di quello che si crede, laddove per controllo non intendo l’operazione di lima continua che viene fatta, intendo la volontà di fare trasparire sé stessi. Non facciamo mai trasparire nulla di noi nella grande scrittura, noi siamo strumenti tanto quanto le parole.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
La letteratura si pone da sempre le stesse domande, fin dai primi testi che vengono compilati, fin dai Veda, che altro non sono se non un insieme di prescrizioni su come il rituale va eseguito, su come la celebrazione deve essere fatta perché si attenga a delle regole precise. Le domande, gigantesche, sono quelle che abbraccia la letteratura: perché accade il male? e in che modo la tensione verso il bene che è un germoglio che appartiene a ogni persona a volte resta sopita, o a volte, per il peso di vari motivi, soccomba alla resa, alla sconfitta. Ma la letteratura si pone difronte come obbiettivo la comprensione del sacro. Il resto è rumore di fondo. Sempre e comunque. Se crediamo alla coincidenza di polítēs nella polis, quindi di un singolo che, comunque, fa parte di un qualcosa di più grande, il gesto  diventa politico della letteratura perché riesce in qualche modo a parlare ai tanti singoli e, quindi, a muoversi dentro un afflato comunitario. Il punto è che le domande sono sempre quelle, come sempre è la medesima l’assenza di risposte perché la letteratura si muove su un’altra dimensione temporale in cui i grandi autori dialogano con sé stessi per il semplice motivo che tutti si pongono in maniera umile di fronte alla grande domanda. Le grandi domande non hanno risposte semplici o mediate, ma sono come nella costruzione di una torre, ognuno si appoggia ai mattoni che hanno portato gli altri e ognuno prova a scoprire nuove prospettive grazie anche a tutto ciò che lo precede, sapendo che il lavoro non terminerà mai.

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