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Gilda Policastro

“Cinque domande, uno stile” ospita Gilda Policastro. Scrittrice e critica letteraria. Ha pubblicato numerosi saggi sulla letteratura (“L’ultima poesia”, 2021, Mimesis), raccolte poetiche (“Inattuali”, 2016, Transeuropa) e romanzi (“La parte di Malvasia”, 2021, La nave di Teseo). “La distinzione”, romanzo edito da Perrone (2023), è il suo ultimo lavoro. 

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Non ho una visione così romantica dell’idea, anche perché le mie idee sono poche e ossessive, lavoro sempre attorno alle stesse: la malattia come frattura del continuum delle nostre vite e dispositivo di democratizzazione di abitudini e comportamenti, il linguaggio come strumento di coesione ma anche di straniamento, il fastidio verso tutto ciò che è storto, che va male, che non funziona come dovrebbe. La scrittura, specie nell’ultimo libro, è un referto: di quello che dicono e fanno gli altri attorno a me. Quindi non ispirazione ma caso mai espirazione.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

No, nemmeno su questo sono molto d’accordo: anche perché anch’io come gli scrittori che amo (Bernhard su tutti) tendo a scrivere un po’ lo stesso libro, che ricomincia ogni volta.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”

È stato per me una conseguenza del leggere, mettermi a scrivere: nella mia famiglia, che poi ha avuto più scienziati che letterati, l’abitudine alla lettura era quotidiana, soprattutto per mio padre che non andava mai a dormire prima di aver letto qualche capitolo del libro in carica. Dopo aver letto tanto, e soprattutto libri impegnati già nella prima adolescenza (da Delitto e castigo consigliato dal fratello maggiore ai Malavoglia o Fontamara che leggevamo a scuola), è venuto molto naturale cominciare a riempire quaderni su quaderni con progetti di romanzo, cui poi rinunciavo per nuovi progetti. La poesia è venuta invece molto dopo: in barba a Croce, non ne avevo mai scritta prima dei trent’anni.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Deve essere un vincolo: lo stile è il modo peculiare in cui la langue diventa parole,
incarnazione della lingua di tutti. Anche se le frasi delle mie “inattuali” (così ho definito una parte della mia produzione in versi) sono prese dal parlato comune e da situazioni di vita sociale (o social), lo stile è mio, nel senso che è mio il progetto, il modo di dare un senso alle cose che vedo, che ascolto, che raduno e ricombino. Lo stile è il modo in cui le cose diventano pagina, alla fine.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Proprio perché gli scrittori (e i poeti in particolare) non hanno più nessuna presa sulla vita concreta e, soprattutto, hanno perso quello che Benjamin chiamava il “mandato sociale”, scrivere rimane un forte gesto politico. Perché è un modo di sottrarsi all’iperproduttività, all’efficienza, all’obbligo di essere ricchi, presenti, iperconnessi. Scrivere vuol dire disconnettersi, anche solo come gesto empirico, materiale, per poter raccogliere le idee e metterle in forma. E mettersi in contatto non con follower e like, ma con un pensiero, che verrà condiviso poi, in un secondo momento, dopo molte revisioni. E questo se non è politico nel senso della militanza lo è nel senso della “cura di sé” (in senso filosofico) o come forma di conoscenza comunitaria. Nelle cose che scrivo c’è attraverso il linguaggio anche il senso della storia, che non è altro che vita in comune.

 

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