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L'identità dell'io (da "Ho amato fino a morirne")



Non è affatto vero che sono nera, e assolutamente falso è il luogo comune che mi rappresenta brutta. Sono bella, e non potrebbe essere altrimenti. E ho mille colori da mostrarvi altro che il nero. Quello lo lascio a voi e il vostro lutto. Non riesco a scorgere altro che bellezza in me. Vengo a tirarvi fuori dalle vostre miserie, dalle miserie quotidiane che vi siete costruiti nell’arco di millenni grazie alle vostre organizzazioni sociali, alle economie che avete fondato sul mercato. Io sono la libertà e giungo a voi per togliere il fardello che vi ostinate a portare sulle spalle. Certa gente non immagina nemmeno in che condizioni di vita io mi ritrovi ad intervenire. Catapecchie infestate da roditori e zecche e pulci che scavano su cancrene vive di poveri bimbi inermi. Questa me la chiamate vita voi? Eppure pregano là dentro e ciò non mi da pace. Idioti. Idioti che rantolano dentro quegli antri neri, neri come la pece, in cui la luce del sole non entra per paura di sporcarsi. Io vengo a liberarli da quella miseria indegna che qualcuno s’azzarda ancora a camuffare come vita e giungo a loro, leggera, e con un gesto semplice li tiro fuori. Talvolta credo che sarebbe meglio lasciarli là dentro a marcire, ché non meritano con le loro lacrime quella grazia. Eppure la bellezza che mi porto dietro non riesce a farmi essere così cinica. Faccio quel che devo. E spezzo le catene di spettacoli indegni. Certa gente non immagina nemmeno. Famiglie allo sbando, cani senza padrone, lacrime eterne che scivolano a rigare volti sempre più emaciati. Asciugati lentamente dalla fame. Giorno dopo giorno. E voi chiamate vita tutto questo? Eppure talvolta accade di sentirli pregare quelli lì. Certa gente non capirebbe, certa gente continua a non capire. Il nero lo lascio a loro. Ho mille colori da mostrare. Gambe frantumate, in pezzi così piccoli da far perdere le tracce. Talvolta considero il fatto che sia una grande comodità la storia dell’anima. Non potrei sopportare la fatica di un lavoro che inevitabilmente mi porterebbe a scovare e racimolare frammenti e ossa, e gocce di sangue rappreso avvinghiate alla terra, con la probabilità di ritrovarsi a staccare qualche mano dall’albero che imperterrita non vuole lasciare. No senza dubbio, la storia dell’anima è comoda. Un gesto e via, liberi e senza zavorra. Seguitemi figlioli, ho bellezza da darvi, lo faccio da sempre, e per sempre farò.

La questione è abbastanza semplice, riguarda il problema dell’identità. Non riesco a comprendere a tal proposito tutto questo accanimento contro di me, come se fosse responsabilità mia. Ma se le coscienze di chi ha consapevolezza della mia esistenza si fermassero un attimo a riflettere, razionalmente, aldilà delle loro paure e delle angosce che voglio ricondurre a me, capirebbero bene come il problema si riduce alla questione dell’identità.
Specchiandosi in me tutti quelli che ne hanno capacità prendono coscienza di sé, della loro stessa vita.
In fondo, tutto non è altro che un gioco di specchi.
Ma gli occhi spesso ingannano, perché non hanno la forza dello sguardo della mente.
E ingannano.
Ingannano la vostra mente, ed io me ne sto ferma a sorridere delle vostre paure.
Tutto quello che vi circonda potrebbe essere migliore, ma l’inganno, che a me volete ostinarvi a ricondurre, vi ottenebra la ragione.
Non riesco a capire perché il genere umano abbia speso tante di quelle energie e si sia industriato a fondo nel corso di tutta la sua storia, per giungere più velocemente a me.
Io giungo, comunque.
Eppure lui ha pensato bene di ricercare, di sperimentare tecniche nuove, lancinanti, dolorose, geniali talvolta, da lasciarmi allibita.
Non avrei mai creduto si potesse arrivare a tanto, eppure la razza umana lo ha fatto.
E devo dargliene atto.
Da qui capisco quanto sia istupidita se non considera che comunque, aldilà di tutta la tecnica e la tecnologia avanzata generata per produrmi, io giungo.

Ad ogni modo per quel che riguarda questo incubo, ero lì quando nacque.
Come per tutti voi del resto.
Lo vidi per prima e rimasi ferma ad attendere, troppo piccolo per farcela, l’avrei accolto tra le mie braccia al primo vagito, pensavo.
Minuto e spelacchiato venne al mondo silenzioso, cosa inusuale, non m’era capitato e nella mia mia lunga e secolare memoria non ricordavo d’essermi imbattuta in un nascituro che non lasciava andare nemmeno un urletto, benché minimo.
Non era come tutti i figli che ho visto strepitare nel corso del tempo, come tutti i pargoli impegnati a spendere energie superflue nel lamentarsi per aver perso il loro cantuccio primordiale.
Chiazzato di sangue qua e là e le manine tremanti e le braccia tese.
Il cordone ombelicale della madre gli aveva fatto un brutto tiro.
Lo teneva avvinghiato a sé per la gola, e il piccolo nascituro diventava sempre più blu.
Fin dalla nascita ebbe i blues quel piccolino lì.
Io aspettavo pronta ad abbracciarlo, lesta a portarlo con me come spesso accade, ma un tipo dal camice bianco, dimenandosi avanti e indietro, lo prese per i piedi appena formati e con un movimento secco liberò la gola del bambino già da tempo cianotico.
Un attimo e l’esplosione di urla e lacrime non si fece attendere.
Era entrato appieno in quello che chiamate vita.
Da allora spesse volte le nostre strade si sono incrociate.
Io rimanevo lì, ferma a vegliare.
Pronta ad abbracciarlo quando sarebbe stato opportuno.
All’età di sette anni, nella strada che da scuola portava alla sua prima casa, finimmo per incontrarci nuovamente.
Ritornava scorrazzando sulla sua bici verde pistacchio, tutto il mattino aveva piovuto da non poterne più, il bimbetto dava di matto su quei pedali fino a quando un gatto, sgusciando fuori dall’angolo, gli tagliò la strada e il piccolo fu costretto ad abbozzare una frenata, la bici si scostò repentina fino ad intraversarsi e il poveretto, perdendo del tutto il controllo del mezzo, finì sotto l’automobile del vicino che giungeva sulla via.
Mi prontai sul fatto, pronta a trarre fuori il bimbo dalla autovettura, ma rimasi sconcertata quando, ormai giunta ad un passo da lui, lo vidi rimettersi in piedi sorridendo al vicino, che sconvolto già piangeva convinto d’averlo ucciso.
Il bimbo aveva qualche escoriazione ma nulla più.
Sorrisi a mio modo, era già la seconda volta che si negava a me.
E non m’era mai accaduto.
Poi una notte sento la voce d’un bimbetto che mi chiama cantilenando parole incomprensibili, e sussurra lentamente. Scivolo ad un passo da lui.
Con le braccia tese.
E lui sorride e dice d’esser stanco.
Portami via da qui. Sono stanco di questa gente.
E canta, qualcosa che somiglia ad una ninna nanna.
E sorride.
Mia madre disse, bambino non lasciare… , mia mamma non diceva molte cose, e a dire il vero non ricordo il timbro della sua voce, ma ho impresso il suo sorriso, prima che Billie lo cambiasse a suon di schiaffi e vino. E mio padre? Mio padre quando verrà?
Farneticava frasi senza senso, si rigirava nel suo letto, e sorrideva chiamandomi, portami via da qui, portami via da qui, e sorrideva.
Fu nel periodo in cui già da tempo la gente aveva dimenticato il suo nome.
In quei giorni vagava di bar e bar, con gli occhi spenti persi nel vuoto, e i passi che lentamente lo conducevano oltre la soglia.
La sua voce era rimasta indietro.
Strano certo, la vicenda che gli è accaduta ha di che dirsi bizzarra.
Un giorno si alza e tutto il whisky che ha mandato giù e tutta la droga che s’è ficcato lungo le braccia, li rigurgita fuori dalla sua gola spegnendo del tutto la voce. Per uno che ne fa una ragione di vita non dev’essere stato per nulla semplice accettare una cosa del genere.
Infatti il tipo è andato fuori di matto.
Non c’ha visto, né creduto più.
Rimaneva per ore assorto a fissarsi nello specchio senza vedere, senza alcuna possibilità di scorgere un barlume di speranza, o dio sa cosa.
Inebetito, completamente inebetito e senza voce.
Raucedine dicono.
Per uno delle sue capacità…
Una tragedia, altra parola non sarebbe più adatta.
Tragedia.
Lo abbracciai sorridente.
In giro si dicevano cose egregie della sua voce.
Rimasi incuriosita, fino a quando questa maledetta curiosità, che mi conduce di porta in porta, non mi spinse ad andarlo ad ascoltare.
Ritornai indietro di qualche anno.
Divenni pubblico per la prima volta nella mia millenaria esistenza.
Di solito è la gente che mi ammira, che mi ascolta, guarda, mi tasta, si avvicina, cerca.
E poi, come al solito, senza alcuna fantasia, da secoli e secoli, singhiozza e si lamenta, e urla e piange.
Quella volta avevo invertito i ruoli.
Da oggetto dello spettacolo a spettatore passivo, completamente soggiogata dalla sua voce.
Mi guardavo intorno, tra la gente che come me assisteva ammirata a quello spettacolo, cercando con attenzione nelle file dietro, magari nascosto in fondo, se anche Lui era presente, ma non ebbi modo di vederlo.
Magari s’era pure camuffato, come avevo fatto io.
Rimango col dubbio che anche Lui fosse lì.
Presente a quello spettacolo.
Magari avrà comunque ascoltato dalla sua postazione privilegiata, così dicono.
Fatto sta che non m’è parso di vederlo, anche se a dire il vero, è così tanto tempo che non c’incontriamo che non sarei del tutto sicura di riconoscerlo.
Né che sia ancora in giro.

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