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Lettera di presentazione


Avevo scritto una lettera molto arguta, ironica. La ritenevo assolutamente efficace come lettera di presentazione. Ne ero certo. Più scorrevo quelle poche righe, più mi rendevo conto che per come riuscivo a presentarlo, il romanzo, non avrei dato scampo a chi avesse messo gli occhi addosso al primo foglio. Quel primo significativo foglio che conteneva in sé tutto il malloppo di pagine messe giù quasi di getto in pochi mesi, ma elaborate nel corso di non ricordo più quanti anni.
Era il capolavoro delle lettere di presentazione.
Anche perché non era affatto una lettera di presentazione.
Non presentava nulla.
Perché nulla, ero certo, sarei stato in grado di presentare di quelle pagine. Le avevo scritte per ciò che pensavo potesse essere la maniera migliore. Come dice qualcuno: lo scrittore non può far altro che scrivere per quel che è capace, non per quello che vorrebbe. Io non avevo grande voglia di scrivere in un modo particolare, ma lo facevo. E pagina su pagina avevo messo insieme un malloppo corposo che prometteva bene. Ne ero certo. Stupidamente certo. Lo leggevo negli occhi di quelle povere vittime a cui avevo sottoposto la lettura di pagine a scelta. Pochi in vero avevano avuto l’ardire di mettersi davanti alla storia dall’inizio alla fine. Eppure quegli eroi, stacanovisti della lettura, cui avevo concesso la fortuna di dargli una sbirciata dicevano che c’era del bello là dentro.
Vissuto.
Ecco il punto. E tenevo a sottolinearlo.
Non scrivevo quello che avrei voluto scrivere proprio perché non sarei stato in grado di vivere in maniera diversa rispetto a ciò che era stato.
La vicenda assumeva toni confusi quando provavo a spiegarlo, ma l’idea covava in me, e sebbene fosse poco chiara nel mio animo, ero consapevole della sua assoluta verità.
Dogmatica.
Scrivevo quello che avevo vissuto.
E quella lettera di poche righe sapeva ben dirlo, molto più di quanto ne sarei stato capace io parlandone. Infatti, ogni qual volta mi chiedevano a che punto sei?, Hai un nuovo lavoro?, ecco, finivo con l’impappinarmi, dando la sensazione di essere un completo idiota. E non ero certo un idiota, non potevo esserlo, come non credo d’esserlo diventato.
Non ero un idiota, avevo già pubblicato il mio primo romanzo, che a dire il vero era passato desolatamente tra pochi scaffali di sparute librerie senza fare molto clamore.
Ma cosa volevano che fosse?
Un best-seller?
Una roba alla Dan Brown?
Dieci milioni di copie e centocinquanta ristampe?
Affatto. Io in quel romanzo avevo messo della letteratura, mica merda da vendere al supermercato. Così la pensavo, in questa maniera mi schermavo da un clamoroso insuccesso. La reale sorte che era toccata al primo lavoro di Riccardo Marchetti. Eppure in qualche modo le acque sembravano muoversi. Il mio breve soggiorno romano non aveva causato solo casini e fraintendimenti. Ero venuto a contatto con un paio di tipi davvero interessati al mio lavoro.

Uno di questi andava di corsa.
Ed era possibile ritrovarselo a sfrecciare davanti agli occhi senza nemmeno un cenno di saluto, semplicemente perché lui stava andando.
Ed era in ritardo.
Ecco, quel tizio andava di continuo. Non so se fosse al cesso o in qualche altro posto simile, ma andava, e lo faceva in maniera frenetica.
Perché era in ritardo.
In una delle poche pause della sua esistenza, e di questo ero convinto, mi capitò di incontrarne gli occhi. Fermi dentro le orbite, bloccate dentro il cranio, rigido su un collo assente, fermo su spalle sbilenche, sostenute da un busto abbondante, incassato su una sedia.
Immobile.
E non era cosa da poco.
Notavo lo sguardo della sua segretaria come rapito davanti ad una lacrimazione di qualche madonna della domenica fai da te. Perché una di quelle situazioni alla quale stava assistendo quella donnicciuola, nient’affatto male, non era solita dentro l’ufficio. Che spesso rimaneva serrato e vuoto. Essendo che, come ho ben spiegato, il tizio, il capo, Anselmo, insomma, era in un perpetuo andare.
Il sedicente editore, dunque, scrutò a fondo la prima pagina, quella della lettera.
Aveva il volto sudaticcio, pur non essendoci particolarmente caldo, grazie ad un ventilatore che in maniera alquanto fastidiosa ronzava dietro le sue spalle in un movimento vorticoso, spingendomi ad urlare fermalo stronzo! Ma non potevo, probabilmente il proprietario di quella tecnologica tortura sarebbe stato il mio nuovo editore.
Quello della svolta.
Anselmo leggeva in assoluto silenzio. Poi, sfogliò delle pagine e si soffermò su alcune di esse. Ne ero certo, aveva lo sguardo rapito dalle mie parole. Riuscivo a stento a trattenere un’espressione carica di soddisfazione con la quale avrei voluto dirgli, ecco bello mio quello è il top del presentazioni, che contiene il top della letteratura contemporanea italiana. Ma questo non potevo dirlo in maniera chiara, avrei dato l’impressione d’essere uno sfacciato egocentrico.
Ripose il prezioso dattiloscritto sulla sua scrivania, poco ingombra di carte, in verità, e molto carica di polvere, se ne poteva ben distinguere il velo, ogni volta che muoveva i suoi grassi gomiti su di esso.
Raccontami in poche parole questa storia, disse infine, dopo alcuni istanti in cui non sapevo proprio come contorcermi per evitare di manifestare troppo quell’entusiasmo che da tempo aveva pervaso ogni centimetro delle mie ossa. In maniera assolutamente ingiustificata, peraltro.
Be’, ecco…, risposi.
Cazzo! Con quel popò di lettera tu stai a chiedermi di raccontarti la vicenda, a cosa è servito scrivere la divina commedia delle lettere se nemmeno riesci a coglierne lo spirito?, pensavo tra me, con la ferma volontà di dirglielo. Ma non riuscivo a capire in che modo. Come avrei potuto fargli notare la sua completa mancanza di ironia senza ferirne l’animo? No, non avevo pensato a questo possibile scenario, non ero preparato ad offendere con garbo quel tipo che andava sempre di fretta seppur al cesso.
Mi attraversò un flash mentale nel quale ero io ad andare stavolta, anche di fretta per non stonare rispetto all’abitudine di quei luoghi.
E mi vedevo sfrecciare via da quello studio.
Eppure avrei deluso molte persone, tutte quelle alle quali, con enfasi eccessiva, avevo comunicato l’appuntamento. Fissato in una domenica mattina romana, insolitamente tranquilla, in cui il santo padre era impegnato in uno dei frequenti viaggi apostolici lungo le strade di altri continenti, e lasciava sguarnita la grande piazza.
Avrei deluso troppa gente, la signora che m’aveva procurato l’aggancio, e in fin dei conti, avrei deluso me stesso.
Almeno un pizzico.
O quasi.
Pertanto non m’alzai di scatto, e non lanciai velocemente la sedia su un fianco pronto ad aprire la porta per sottrarmi alla tortura di quell’aggeggio ronzante. Me ne restai lì, immobile a fissarlo senza aver nulla da dire. Le parole che mi venivano in mente, anch’esse di fretta come se quel posto inducesse a correre pure i pensieri, non erano parole riferibili ad un pubblico semi-sconosciuto. Considerato il fatto di non aver ancora perduto la speranza di ritrovarmi davanti al mio nuovo mecenate che con pazienza avrebbe atteso le future creazioni letterarie del Marchetti. Tacere risulta essere salutare in alcune occasioni, consideravo quanto in quella situazione potesse essere giusto.
Si, capisco il probabile imbarazzo, riprese a dire, ma comprenderai bene che uno scrittore deve pur saper parlare della sua opera, degli intendimenti, del perché, e roba di questo tipo. E poi quanto realmente credi a questo tuo lavoro, fino a che punto sei disposto a spingerlo, a sacrificarti per esso. Con calma, ti ripeto, con calma estrema, non sarò io di certo ad esaminarti per quello che mi dirai, ma con estrema calma prova a raccontarmi la storia di questo romanzo, continuò con lo spirito di un padre parroco che ti induce a confessare l’efferato delitto.
La lettera…? abbozzai cercando di contenere gli acuti.
Sì, sì, la lettera è carina ma cosa ci dice della storia, cosa dice a chi non ne conosce niente di niente? C’è della droga? Si parla di storie di droga, al limite dell’indecenza, di vite traviate forse?
Veramente, provai a dire quasi balbettando, ho già dato diciamo, il mio primo…
Ma lui non ascoltava quello che provavo a dirgli, e nemmeno io avevo molta fiducia in quelle mie parole.
Anselmo continuava in quell’insopportabile predica, con tono pacato, al limite del soffio di un serpente che in maniera scivolosa, viscida, smuove l’aria attorno a sé.
Non dice nulla questa lettera, forse potrebbe indurre qualche perditempo a leggere il romanzo, ma capirai non è che sto qui a perdere tempo. Io ti ascolto e se mi interessa la vicenda allora se ne può discutere. Noi non abbiamo un grosso catalogo, capirai… Siamo una piccola realtà, di nicchia come dicono molti. Editiamo pochi titoli all’anno ma scelti con cura…
Mi alzai, in un solo gesto lasciai scivolare su un fianco la sedia aprii la porta e m’incamminai incazzato come un animale verso casa. Dopo alcuni metri, non ero nemmeno a portata delle straboccanti tette della donnicciola nient’affatto male, ritornai sui miei passi, diedi un leggero calcio alla porta dell’ufficio che si spalancò in un biz. Seduto come l’avevo lasciato c’era l’intellettuale che sceglieva le sue opere con cura, anche se non aveva tempo da perdere a leggerle. Mi guardò stizzito, ma non ebbe modo di dire nulla, con estrema velocità ripresi il prezioso dattiloscritto e me ne andai.
Una storia simile con protagonisti differenti si svolse almeno tre o quattro volte in quel mese fino a quando mi ritrovai davanti ad un tizio che non aveva fretta, né correva, né chiedeva quante copie avrei voluto acquistare, rigorosamente al 50% del prezzo di copertina.
Aveva un viso che induceva alla calma, ed ogni parola fluiva lentamente, quasi stentasse a venir fuori dalle sue labbra. Certo aveva un fare strano, che avrebbe indotto molta gente sempre di corsa per le strade della città a mandarlo a fanculo in pochi attimi. Ma ero stanco di mandare a fanculo i miei potenziali editori, e non avrei accettato un altro mi spiace, o credevamo che lei fosse disposto a pagare le spese di pubblicazione, o c’è del talento ma mancano i soldi, è un periodo di crisi, lei capirà…
Tutte frasi consolatorie che tra Palermo e Roma m’avevano visto sempre alla stessa maniera, di spalle, andar via, e ritornare mestamente a casa trattenendo a stento il peso del mio dattiloscritto.
Quel tipo aveva un ché di diverso.
Non mi tese la mano in maniera affettata, sembrava che davvero lavorasse alla scelta dei dattiloscritti, e poi, devo dire che la lettera di risposta alla mia era stata notevole. Sprizzava ironia da ogni virgola, e l’avevo ritenuta all’altezza delle mie dieci righe. Forse senza la stessa profondità, ma ad ogni buon conto di notevole fattura. E quell’uomo, l’uomo che aveva risposto in maniera interessata se ne stava lì, con lo sguardo spalancato, e le lunghe braccia poggiate sulla scrivania ingombre di buste e dattiloscritti sfogliati a metà, e qualche copia di romanzo, e bozze varie. Quella scrivania viveva sotto il peso di parole, e non v’era traccia di polvere.
Un ottimo segnale.
Franchino, il nome dell’editor, o qualunque ruolo svolgesse dentro quella piccola casa editrice, mi chiese d’accomodarmi.
Prese dal cassetto un paio di occhiali e lo indossò. Per un attimo mi diede una particolare impressione. La luce della lampada che teneva accesa, puntata di traverso alla sua destra, lo illuminò in maniera tale da farmelo sembrare un novello Erri de Luca, e pensai che se soltanto avesse avuto in sé un decimo dei valori di quello scrittore decisamente mi sarebbe stato difficile tenergli il passo. Mi scrutò a fondo senza dire parola e poi, rompendo l’incantesimo di quel meraviglioso silenzio simbiotico che s’era venuto a creare tra di noi, disse.
Parlami del romanzo.
Allora era un vizio, cazzo!
Un vizio di tutti.
Anche questo tipo dalla sguardo profondo, sprofondava nella più banale delle domande, per quanto mi impegnassi a girare non se ne usciva fuori.
Be, ecco…
Sorrise, e mi parve di cogliervi una sfumatura irridente.
Me ne rimasi lì, seduto, senza parole sulla lingua, stanco di pensare di doverlo mandare a fanculo, disperato alla sola idea di rivedermi sulla strada di ritorno col dattiloscritto sotto il braccio.
Quante volte te lo hanno chiesto?, riprese interrompendo il filo dei miei pensieri sempre più abbattuti e melanconici.
Ogni volta, dissi con un moto di ringalluzzimento che non avrei sperato, ogni volta che mi sono ritrovato in un’occasione del genere m’è stata posta questa domanda.
E perché credi che ogni volta la stessa questione ti venga ribadita?, chiese il tipo con una smorfia che mi sembrò ancor più strafottente.
Non lo so. Io credo… non consideri questo mio pensiero come un’affermazione arrogante, non ho che trentatré anni, ma penso che quello che volevo dire, se davvero c’è qualcosa da dire là dentro, dentro quell’insieme di fogli, io l’ho detto, l’ho scritto così per come lei potrà leggerlo. Ci saranno refusi, e stonature, e costrutti che magari non andranno a genio, ma non ho la capacità di sintetizzarlo. Non ero bravo a scuola a fare riassunti. Ricordo che alle elementari, bé, avevamo la giornata dei riassunti e quella dei racconti. Eccellevo nei racconti, così diceva la maestra, ecco, mentre quando mi si obbligava a sintetizzare una storia non sapevo da dove iniziare. Forse, forse era un’incapacità di mostrarmi attento a quelle parole, al contesto per intero, forse mi sfuggivano gli elementi principali delle vicende, o forse più semplicemente non m’andava di sintetizzare, di stringere quella particolare storia come un capo d’abbigliamento in lavatrice sottoposto ad un lavaggio errato. Lo infili d’un colore, d’una precisa taglia e te lo ritrovi dopo il lavaggio con altro colore e ristretto. Non è così che deve andare, non è così che penso debba andare.
E se ti chiedessi di raccontarmi allora com’è nato il tuo romanzo come mi risponderesti?, mi chiese Franchino.
Quelle è un’altra storia, dissi.
Provaci, insistette.
Era l’ottavo incontro. Otto facce, otto stanze, qualche segretaria meno, non tutte dalle tette strabordanti, ma ugualmente dallo sguardo vacuo e spento m’avevano introdotto in otto scrivanie. Alcune brillanti, altre oscure, molte vuote, altre piene di polvere, poche di manoscritti.
Ma pur sempre otto possibili nuovi editori.
Dopo la prima pubblicazione, dopo il trambusto presto sopito del primo romanzo. Credevo che questo lavoro che m’accompagnava ogni qual volta me ne tornavo mestamente a casa potesse fare di me in maniera definitiva uno scrittore.
Cioè, credevo sarebbe stato in grado di darmi da mangiare per quello che scrivevo, smettendola di condurmi in giro per le strade a pubblicizzare come un megafono quello che avevo scritto. Credevo che quell’uomo che mi stava davanti, pacato, silenzioso quando c’era da ascoltare, ciarliero quando c’era da capire, e attento alle sfumature del mio volto ogni volta che mi ritrovavo a parlargli, be’ quell’uomo era la mia ultima possibilità. Rimasi alcuni istanti a riflettere, cercando di darmi un contegno da intellettuale che pensa alla miseria del mondo, rovistando nel non mio fornitissimo vocabolario, cercando di mettere insieme alcune frasi figlie del mio immaginario, del vissuto. Pensavo a qualcosa che avrebbe fatto colpo sul tipo.
Ecco, dissi.
Solamente ecco!
Ecco è un dannatissimo pessimo inizio, un inizio del cazzo per ogni cosa che si vuole intraprendere, ma ormai era venuto fuori, uscito vigliaccamente dalle mie labbra senza avermi dato il tempo di poterlo ammazzare in un sospiro certamente più carico d’espressione.
Ripresi fiato.
E abbozzai un sorriso d’intendimento, uno di quei sorrisi che se mal interpretati ti può portare dritto dritto allo sgabuzzino col tuo interlocutore, a dimenarti fra bastoni di scopa e secchi della spazzatura ancora da svuotare. Ma nulla di ciò accadde. Franchino rimase in ascolto, volenterosamente in ascolto. Forse anche lui aveva colto qualcosa in me, lo speravo, e questa speranza, come è proprio d’ogni speranza, mi confortava.
Ero a Palermo, ripresi, avevo finito le sigarette. L’efficiente amministrazione sanitaria non m’aveva ancora rilasciato l’ultimo ritrovato della tecnologia in fatto di tessere. Nessun bar vicino casa, né whisky sulla solita mensola. Un pc acceso davanti a me e niente Film. Nemmeno del genere che potrebbe pensare. Nessuno straccio di connessione wi-fi a sgamo. Soltanto un pc. un word crackato (non sia mai, ovvio mi sono fustigato in seguito), e qui abbozzai un sorriso idiota di quelli da cabaret d’infimo livello, e qualche idea da strappare al tempo che lentamente m’avrebbe di certo fottuto dalla mente, conclusi enfaticamente tutto d’un fiato.
Con un gesto semplice e immediato e uno strano sorriso sulle labbra mi fece capire di passargli il manoscritto.
Lo sfogliò, soffermandosi attentamente, andò avanti e poi indietro…
[da “L’incanto della follia”]

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