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Dalla Terra dell’Oblio



Prologo

Andai così lontano
da raggiungere la terra dell’oblio,
lo smemorato mi accolse,
mi tolse le scarpe e prese il mio io.

I.

Il palazzo del re era senza colori,
aveva perduto i suoi figli;
il giardino d’ingresso era senza sapori,
aveva perduto i suoi gigli
e folletti e buffoni in quelle stagioni
piangevano muti i loro dolori.

Maghi e stregoni niente poterono
al soffio del vento che gelido e fiero
come un lamento strappò i pargoletti,
entrando dal tempo, la crepa sul muro,
li ingannò col sorriso nei candidi letti.

Il sangue sgorgava dal frontone di destra,
la maestranza accorreva, riparava la falla,
ma la pioggia cadeva, tintinnava insolente
ed entrava ugualmente dalla grande finestra.

II.

“Sgomento, sgomento” urlò il ciambellano,
“hanno preso mio figlio”, “ma chi il sagrestano?”
rispose la guardia, in vero demente,

“non quello, non quello, il di lui fratello”
riprese parola con l’ansia alla suola,

“il ragazzo gentile, rassettava il cortile
quando dopo la festa vostra maestà
puntava preciso il regale fucile
a tutta la gente che voleva restare.”
“Ah bene! Ricordo” sbottò così il re
con la coscia di pollo inzuppata nel tè,
fra le due cortigiane e le belle tisane
e una mano al bicchiere per bere il caffè.

III.

“Andiamo”
disse serio e così prese il suo mantello.

“Questo ci servirà a coprirci dagli schizzi
per strada dei tizi che spargono il loro cervello.”

e con queste parole lo smemorato rientrò in guardiola
che era già molto tardi, ritornando a innaffiare l’aiuola,

ma non c’erano i fiori e nemmeno gli odori,
così prese il suo vino, lo versò nella brocca
e lo diede al bambino che passava di là.

Poi sedemmo sul prato anche lui abbandonato
e incominciò a raccontare dei viaggi,
le lotte e del mare,
ma eran pochi minuti,
tornò a dimenticare
parole e racconti, ricordi e parenti.

Il suo sguardo era vivo e pronto all’arrivo,
segnato, graffiato ma mai rassegnato,
sperduto, di certo normale,
era lo smemorato nient’affatto banale.

IV.

“La mia cavalletta,
presto sulla corvetta,
la mia cavalletta
che ho un sogno,
m’aspetta.”.

Urlò così il re di prima mattina pronto a salpare.

“L’ho incontrato stanotte bello e suadente,
caldo e piacente aveva occhi cobalto,
labbra di fuoco e braccia di smalto.”

e urlava e urlava dimenando il pancione
e la corte intontita lo stava a sentire
ma non capiva davvero cosa avesse da dire,
cosa mai blaterava il prode minchione.

“Razza di idioti,
cortigiani dannati che cosa guardate!
Cosa aspettate?
Presto la mia cavalletta
che il sogno lo posso afferrare,
vedete, m’aspetta.”

E la corte partì e alla sua testa era il re,
eroi e combattenti, soldati e attendenti,
sarebbe bastato un sillabico no
e nessuna inutile, bislacca guerra,
anche in quella bizzarra e vergine terra
li avrebbe battezzati del tutto dementi.

Ma un ordine è tale e va portato a compimento,
non si dica “l’eroe ebbe un tentennamento”,
così corse, fiero e imponente
attraversò il continente
del regno placcato dal morbido oro
che nulla valeva al mercato nero.

E uccise nemici e maschere
e amici,
e uccise,
e uccise a ripetizione,
l’eroe senza macchia, senza esitazione,
l’uomo che niente avrebbe fermato,
l’uomo che mai avrebbe pregato,
sofferto, pianto, ingannato.

Catturarono il sogno all’alba del giorno
milleduecento di lotta e senza ritorno
lo consegnarono al re, di nuovo gaudente,
di nuovo contento, di nuovo potente.

Architetti e ingegneri progettarono fieri,
costruirono insieme una gabbia di latta,
materiale pregiato di una terra assai matta,

e vi posero il sogno a riposare,
affaticato dal tempo, dalle lotte e dal mare,
un piccolo sogno, banale pensiero
morto per sempre nell’arido vero,

lasciato sguazzare nelle segrete del re
che l’ebbe una notte,
lo vide fuggire, lo perse nel giorno
e lo conquistò a forza di botte.

V.

Un giorno di festa
in cui tutto il regno girava la testa incontrai la regina,
una donna minuta, ben fatta, una vera gattina
dagli occhi screziati
immersi nel blu di un malinconico si.

Si aggirava silente fra le stanze del grande palazzo,
circondata d’ancelle rifletteva una luce abbagliante,
più forte di quella del sole, era il lampo,
il desiderio mai del tutto sopito,
pronto ad esplodere in modo indecente
come un fiore non ancora appassito.

Lo smemorato mi disse
“la chiave ha perduto da secoli,
e il ricordo di quello che era l’amore,
la bruciante passione, il regale piacere
è sepolto da qualche parte nella terra d’oblio
che a cercare mi posi, un giorno d’estate,
senza ventura anch’io.”

Incuriosito dal fatto entrai in biblioteca
a cercare le fonti di quella sventura
e lessi di draghi, maghi e epiche lotte,
ma nulla di certo su quella creatura,

chiesi così, al gran ciambellano,
seduto in giardino nella consueta postura,
felice e gaio per il ritorno
del figlio perduto dietro qualche fanciulla
profumata di rose come una puella.

“Ragazzo mio è il dogma di fede
che tiene salda la nostra speranza
così vorresti infrangere il grande tabù
ed aprire da solo l’impenetrabile stanza?

Aiutarti non posso e poco ho da dire,
la regina rassegna al volere del re
ogni suo essere viva e regnante.

Lascia stare ragazzo non è cosa per te
è qualcosa di grande saper vivere
nella terra d’oblio
dove tutti hanno perso da tempo il lor’ io”.

“Ma qualcosa davvero” risposi “si potrà pure fare,
qualche cosa che il sorriso le possa ridare
come brillava un tempo, almeno è quello che sento.”

“un consiglio infine io ti posso donare”
rispose sdegnato il grasso ambasciatore

“che aldilà di quel fiume
dove soffia da sempre il nostro pavento
sta un vecchio solitario che ha visto tanto
e troppo ascoltato
per vivere ancora nel regno fatato.

Va da lui qualcosa saprà,
dicono mangi topi in scatolette
legga al buio nella notte e scriva con le baionette.

Raccontano che abbia combattuto
con le mani contro i draghi,
trionfando tra la gente
ma abbia perso malamente
contro il dictat di un potente.

È per questo che un bel giorno,
e quando fu non lo ricordo,
prese tutto ciò che aveva, se lo mise sulle spalle,
un ingombrò niente male, lo chiamava libertà,
attraversò tutta la valle e da allora restò là”.

VI.

Dopo quel ghiotto consiglio presi il fido gianconiglio,
razza nata dall’incrocio di un cavallo alquanto zoppo
innamorato alla follia di un povero coniglio.

Presi, dunque, a cavalcare col destriero,
oltre i campi e sopra il mare,
cinque giorni e tante notti che vedevo le lampare
non nell’acqua ma su in cielo disegnare,
fluttuante e sorridente un magnifico veliero.

Era un posto più che strano
quello che mi si aprì agli occhi,
non un’ombra, né parola,
solo un vecchio assai pastrano
che dormiva coi suoi fiocchi.

E dopo tanto attendere, iniziai a canticchiare,
uscì un tipo con il flauto pronto per accompagnare
il mio canto malinconico che non si fece pregare.

“presero tutte le cose
mi sputarono negli occhi
mi strapparono l’amore,

frantumarono gli specchi
che erano nella mia stanza
giudicarono colpevole
chi negava la speranza.

E tarparono le ali,
e castrarono il mio volo
quello si che era speranza

molto più dell’indolenza
per la vita che ti toglie
sempre più di quel che prendi.

Ti battezza con le doglie
e ti congeda con le voglie
che nessuno sazierà,
in questa terra in verità.”

Così acceso nel mio canto
non mi accorsi nel momento
che folletti stravaganti
mi osservavano sognanti,

che mancate spose in fiore
mi rendevano l’amore
che quel grosso ciambellano
aveva spento nella mano.

Non so più quanto rimasi
in quell’eden benedetto,
dove nulla era vietato
e niente era maledetto,

dove il giorno non finiva
se non quando il tuo pudore
richiedeva un po’ di buio
per cullarsi nell’amore.

Libertà, questo era il nome,
raccontava strane storie
e cantava melodie,
predicava cose serie,

organizzava tanti giochi
spensierati con i fuochi
e circondava con i fumi
i suoi averi, in vero pochi.

Quando un giorno disgraziato
mi passò fra occhi piangenti
(lacrime di ilarità),
un’immagine tremenda,

quadro di una verità:
che il mio viaggio era iniziato
per salvare la regina,
per aprire quella porta
chiusa in fretta una mattina.

Così in preda al mio dovere
salutai con grande affetto
tutte quante le fanciulle
fu la notte del mio canto
che riprese come allora
malinconico e fremente
sulle note di quel flauto
che cantava la mia ora.

“presero tutte le cose
mi sputarono negli occhi
mi strapparono l’amore,
frantumarono gli specchi

che erano nella mia stanza
giudicarono colpevole
chi negava la speranza.

E tarparono le ali,
e castrarono il mio volo
quello si che era speranza

molto più dell’indolenza
per la vita che ti toglie
sempre più di quel che prendi.

Ti battezza con le doglie
e ti congeda con le voglie
che nessuno sazierà,
in questa terra in verità.

Così amici miei io lascio
la mia voce, oh Libertà,
e la lascio a chi la notte
cantar di voi vorrà,

un giorno, un’ora,
per amore o per paura,
per la sete d ‘avventura
che ci spinge oltre la valle

alla ricerca di un qualcosa
che per sempre sfuggirà,
lasciandoci incompiuti,
insoddisfatti e per ciò accesi
al nuovo dì che in questa notte
più dell’altro brillerà
che ha già avuto la disgrazia
di passare a miglior vita, vostra grazia.”

Un inchino ben posato
e il saluto di commiato
ch’ero già sul mio destriero
pronto ancora e ripartire,
solamente per tornare.

VII.

Accadde una notte che un temporale
mi obbligasse a sostare presso un vecchio casale.
Il posto era oscuro, piangeva un bambino
e per niente la luce illuminava il cammino.

Bussai al gran portone per un bel paio d’ore,
la pioggia picchiava, la stanchezza premeva.
Con lieta sorpresa venne ad aprire una donna
di punto truccata, indossava una gonna.

Con voce seccata mi disse alterata:
“è questa maniera di importunare la gente
non vede che è tardi, lo stile in lei è di certo assente.”

“Madama mi scusi davvero” supplicante chiedevo
“gianconiglio è stremato, il suo padrone altrettanto
un caldo giaciglio, una minestrina. Chiediamo tanto?”

“Su, su accomodate” mutando il suo accento
“venite, su entrate, qualcosa in dispensa si troverà
e Ginevra, la nostra perpetua, vi accomoderà.”

“Ehi là giovanotto come mai nella notte inoltrata
venite a chieder ristoro nella nostra dimora.”

Intervenne un uomo dall’abito scuro
con l’anello al dito.

“Monsignor mio perdonate l’ardire
non volevamo morire.”
risposi sollevato
dal buon profumino del pasto scaldato.

“Ma bene, ma bene nessun complimento
è nostro signore accoglie voialtri a suo piacimento”
mi disse la strana figura sedendomi accanto.

“Ebbene chi sarà mai questo gran signore”
io chiesi – “che accoglie la gente a tutte le ore?”
“Figliolo” – quell’altro – “ma è nostro signore,
ci guarda dall’alto e prega per noi e non conta le ore”

“Così il vostro padrone abita al secondo piano.”
risposi gustando l’agognata minestra.

“Ma su non scherziamo non è il nostro padrone
è semplicemente nostro signore che pensa e può tutto.”

“Davvero signore”
al dire esclamai sputando il lauto boccone
“Avrei un gran problema e se potessi parlare
al vostro padrone chiederei di trovare…”
non feci in tempo a finire che il gentile signore sorrise:
“Raccontate ch’io parlerò per voi” e ad ascoltar si mise.

Lieto e festante
iniziai la mia storia di fate e regnanti,
raccontai del re e del gran ciambellano
del sogno, l’eroe e del sagrestano,
della mia amata valle e della regina.

Mi accorsi pian piano che il volto gioioso
tendeva col tempo a irritarsi parecchio
ma ciò nonostante continuavo ad empire l’orecchio

che l’uomo mi disse di avere un padrone
che tutto poteva in ogni occasione
ma l’uomo cambiò considerazione
appena finito incominciò a predicare

che quello era il male
che niente e nessuno mi poteva salvare
e gesticolando mi diede del fiele,

ed io non riuscivo a capire,
cercavo una chiave per liberare l’antico piacere
e poter ritornare al mio letto a dormire.

Così il vecchio e gentile signore
si trasformò davanti ai miei increduli occhi in dragone
prese me e gianconiglio, oh povero figlio,
e ci gettò per la strada in balia del tempo
e a quanto credo del suo padrone.

Una storia assai strana davvero
e dopo poco ristoro s’era di nuovo in cammino
verso il gran regno entro il nuovo mattino.

Ma un altro inceppo si pose dinanzi
a me e il mio fido compagno.

Una allegra brigata ricca di colori quali io mai vidi
nel regno fatato, sorrisi e profumi senza mercato,
fermarono me e lo spossato cavallo
ci accolsero in balli, cantate e mantello.

“Ringrazio davvero voialtri signori
per quello che fate, per come accogliete
me e il mio buon amico che stanco davvero
è di correre al vento senza alcun pensiero.”

Ed a queste parole grida di giubilo si issarono al cielo
che ero il buon venuto con il goffo barbuto.

“Allora racconta
chi ti condusse nella morsa asfissiante
di siffatto temporale, di st’intemperie angosciante?
chi ti volle cosi male?”

disse, credo, il capo svoltando il guanciale,
scherzando col tempo e baciando il pelato.

Stavolta, in ricordo al passato
non raccontai quanto era accaduto
ma inventai sul momento una scusa bislacca
che nasceva, parola a parola, dalla mia bocca.

L’allegra brigata non si curava poi tanto
di quel che costruiva il mio stanco cimento
e continuava a ballare, giocare e scherzare
e tra musica e balli e leoni ed augelli
trascorsero altri nuovi dieci anni.

VIII.

Il tempo ci prese le mani,
legò i nostri sogni e li spinse lontani
da noi e dal nostro volere,
da noi e dal nostro potere.

Il tempo si sa non sconta la pena,
è solo impiegato del duro destino
e recita in parte tutta la scena,
e arriva puntuale all’ora di cena.

Il tempo non lascia niente a nessuno,
che il rimpianto si perda fra la sterpaglia,
nei campi d’arare,

nelle sorgive di vita ,
fra le secche d’amore,
o semplicemente riposi leggero sopra la merda.

IX.

Un giorno due tizi alquanto patrizi
fermarono me e il mio prode scudiero,
vestiti di seta con bande traverse in colori brillanti
portavano a braccio delle armi pesanti
mi chiesero dove, perché e chi ero.

“signori davvero chi son’ io non so
e neppure in vero perché e davvero,
davvero vi giuro in che luogo mi trovo.”

“Non scherziamo avanti
ragazzo i documenti
la firma, la foto, il codice, il bollo del noto.”

“Credete signori davvero non so
forse mia madre o mio padre, chissà,
che davvero mai loro chiesi niente,
non feci domande né volli verità.”

“Giovanotto basta corbellerie
che sono ‘ste libertà, queste parole, queste manie,”
io perdo le staffe” e l’altro “ attenzione alle mie.”

Così il più alto con tono sprezzante
indicando le carte del suo attendente:

“Voi dovete presentare,
il vostro esser
voi dovete, caro mio,
certificare,
confermare,
protocollare,
timbrare,

stralciare,
accatastare,
archiviare,
vidimare
e infine se a noi va’ voi, amico mio,
infine, potete, anche … potete,
Può?”

Rivolgendosi al collega che scrutava la mia piega.

“Bè gli atti non prevedon che…
l’articolo milletrecentoventiquattro
del paragrafo settecentontottantaquattro
del comma quarantaquattro,
dimenticato in qualche anfratto
non prevede affatto il caso in cui versa il pover1uomo
che davvero non so dire cosa si potrebbe fare.”

Con il volto trasformato dalla voce dell’amico
il comandante, almeno credo, mi fermò per il cavillo,
abbandonò li sulla strada il mio fiero gianconiglio
e condannò la mia prigione ad un sudicio giaciglio
per non so quante di ore.

X.

La notte non passa mai.

XI.

Lo smemorato mi disse un bel giorno:
“una storia ti narro dal triste contorno”
e tra il vino, che lento versava nei cessi
iniziò a raccontare con toni dimessi.

“Una corona di spine per un regno lontano
che segni il suo volto sfregiandolo e piano
indichi a tutta la gente del posto l’uomo che dice
d’esser nato e morto per niente, ma in pace.

Sandali e piedi si unirono un giorno
dal regno lontano per fare ritorno
ma i sandali vinti marcarono il passo
e i piedi a brandelli facendo lo stesso,
raccolsero il sangue e al loro padrone
chiesero invano pietà per amore.

Una corona di spine per un regno bugiardo,
per il figlio dell’uomo chiamato bastardo
dalle voci di chi bestemmiava nel tempio
e invocando il suo nome compiva ogni scempio.

Una corona di spine da poggiare sul capo
per condurre giù al fronte una massa d’inermi
armata di spranghe, di denti e pudori,
bisonti al galoppo verso aride sterpi
abitate da madri che covavano serpi
che scendevano il fiume nascondendo malori
che giacevano morti sui campi di vermi.

Alla fine del viaggio, i passi dell’uomo
fermarono prima dell’entrata nel regno,
le mani a quel punto sudate e tremanti
presero in cima la corona di spine
e la gettarono al vento
e ai pipistrelli ululanti.”

Lo smemorato finì la canzone
e una lacrima rossa discese nel viso
ma non feci in tempo a guardarla per bene
che l’anziano nascose tutto con un sorriso.

XII.

Il Profeta:

“Avete visto mai amici miei un re?”
dissi alla folla che sorseggiava il caffè,
“avete mai visto un uomo bello grasso e potente,
un uomo che non chiede, non parla, non pensa niente
eppure è ricco di averi, donne e poderi?

Avete mai visto un povero Cristo,
l’uomo di cui qualcuno racconta,
regnante di spine con lo sguardo tristo?
La croce, si dice, portò lungo l’erta
la trascinò spaccando le ossa sulla ferita aperta.

Avete mai visto una donna violata,
presa nella sua culla e alla madre strappata?
Per la strada ora vive e passa la notte,
che la madre non sappia chi la riempie di botte.

Avete mai visto e mai raccontato
oh amici ascoltate, qualcosa di vostro,
qualcosa che valga la pena,
qualcosa di vero,

qualcosa che in fondo vi dica davvero
sei vivo e lo senti,
buon uomo mi senti?

Si tu li sul binario,
si tu col cappello
e la speranza in mano,
tu che sei pronto a partire,

a viaggiare,
che in qualche bivacco dovrai pur riposare
troverai li la tua donna che aspetta da secoli
uno sguardo amico che aspetta da anni un bacio,
che aspetta…

Avete mai visto uno stormo volare,
mentre qualcuno mi indica e bracca, mi vuole zittire,
avete mai visto uno stormo volare
tanti uccelli che in gruppo incominciano il viaggio
e tu segui con la coda dell’occhio
sperando che non sia solo un miraggio
di qualcosa svanito,
di qualcosa che il tempo fa finta di dare
e quando meno lo pensi è pronto a ritirare…

La vostra regina non ha niente da dire?
E il gran ciambellano vuole qui conferire?
Che cosa maestà, siamo qui ad ascoltare.
L’eroe che non parla!.

Maestà non muova le mani, non mostri il dissenso,
non cerchi la guardia con gli occhi di vetro,
non dica alla ciurma – “su prendete quell’uomo”
che davvero chi sono ai gendarmi già dissi non so,
e voi cari amici non tiratevi indietro,
non spingete all’uscita, non fuggite la vita,

il mio io da qualche parte,
e scalpito e fremo,
il mio io da qualche parte,
e urlo e gemo,
chiedo di avere il mio io,
e imploro perdono
chiedo di avere il mio io,

e non vedo chi sono
non mi toccate che non sto urlando,
né salutate che non vi sto lasciando,
chiedo soltanto il mio io,
e nient’altro davvero,
non voglio un veliero
per salpare di nuovo,
voglio il mio io per tornare a pensare,
voglio il mio io per poter ricordare
e non solo per esser ricordo
di questa bislacca vicenda
che mi ha stancato,

che qualcuno mi renda
il mio giorno perduto, il mio amore, la casa,
il mio io un po’ sbroccato,
che è pur sempre il mio io
è con lui che ho vissuto.

Epilogo

Ero pronto a lasciare la terra d’oblio.
Lo smemorato mi tese la mano,
mi diede le scarpe e con queste il mio io.

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