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Pier Paolo Di Mino

“Cinque domande, uno stile” ospita Pier Paolo Di Mino. L’autore romano senza ombra di dubbio costituisce uno spiraglio nell’asfittico mondo editoriale dello stivale contemporaneo [a tal proposito invito a leggere l’intervento di Andrea Tarabbia sulla rivista Tuttolibri]. Da anni lavora al progetto letterario Lo splendore di cui L’infanzia di Hans, edito da Laurana (2024) per la collana Fremen diretta da Giulio Mozzi, costituisce il primo volume.

[foto tratta dal profilo FB dell’autore]

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Posso parlare della mia esperienza con l’idea di splendore, che, potremmo dire, è l’idea dell’idea: quando un’idea accade (quando siamo davanti o dentro un’idea) spesso non se ne ha nessun sentimento: e a tale esperienza non segue memoria alcuna. Capita, però, per non so quale meccanismo, che l’idea permanga in noi e ci spinga a dargli forma. Inizia così un faticoso processo (ancora una volta riferisco la mia esperienza) destinato alla frustrazione e alla delusione: la forma, infatti, sarà sempre una riproduzione infedele, incerta, approssimativa, insufficiente dell’idea.

 

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

La parola che mette fine a un racconto, a una storia, è una necessità che, a un certo punto, ci appare come un’evidenza molto triste: è molto triste mettere fine a una storia, perché tutte le storie sono storie d’amore.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Non ho mai sognato, da bambino o da ragazzo, di diventare uno scrittore; ma non posso nemmeno affermare che, a un certo punto della mia vita, ho sentito e affermato a me stesso di dover scrivere: che scrivere fosse un dovere. È successo, piuttosto, che ho ritenuto di non poter far altro che scrivere per fare ciò che volevo fare.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Confesso di non essermi mai preoccupato di avere uno stile, e, quindi, immagino che, possedendone eppure uno, proprio come ogni altra anima vivente su questa terra, lo stile sia appunto un vincolo, uno spirito che ci intrappola in una coazione a ripetere, nel bene e nel male, quei ragionamenti (inascoltati quando siamo immersi nei commerci normali delle produttive e affannate società in cui trasciniamo l’esistenza) che nel nostro cuore continuano a farsi stelle e pianeti.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Qualsiasi gesto è politico: ma quello di raccontare e ascoltare una storia lo è di più. Tutti, infatti, siamo costantemente davanti e dentro un’idea, la vita, che non sarebbe vivibile se non gli dessimo una forma: se non ne facessimo (non importa se con le parole o con altri strumenti) il racconto. Questo vale oggi come sempre. Faccio un esempio: se una società si dota di una letteratura, che potremmo definire Kitsch, le cui uniche espressioni, dunque, sono da una parte l’arte per l’arte (pure esibizioni di belle forme o storie gradevoli) e dall’altra il didascalico (mere compilazioni di fervorini morali su questo o quell’argomento), ecco che nessuno potrebbe più avere accesso a un racconto capace di metterci a contatto con le ambiguità, il vuoto e il pieno, l’abisso e la vertigine, l’inesauribilità interpretativa della vita: e avremmo così una popolazione meno vitale e più facilmente preda di regimi totalitari.

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