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Silenzio (da Kemonia)

Non andammo al funerale. Nessuno del gruppo. Nessuno di noi avrebbe avuto la forza di resistere nel saperlo rinchiuso là dentro. Conservato all’eterno riposo, rigido e muto all’interno di quella bara in legno d’acero ben lucidata. Nessuno avrebbe potuto trattenere le lacrime sapendo che la sua voce sarebbe rimasta imprigionata nel silenzio delle nostre memorie private fino al funerale successivo.

Lo ritrovò Antonio.
In un mattino di primavera, vestito compitamente, per le grandi occasioni.
E l’appuntamento, a ben vedere, è dei più solenni.
Sbarbato e pulito, con l’abito da gran serata, eccessivamente curato com’era solito fare ogni qual volta metteva piede fuori da casa. Sapeva bene che quella che s’apprestava a compiere era una grande uscita.
Un colpo di teatro.
L’aveva pensato da tempo, da mesi. Forse era giunto a quella soluzione da anni, e forse l’accentuarsi della sua vecchiaia lo aveva condotto risoluto a quella scelta così terribile.
La scelta della solitudine.
Spesso negli ultimi tempi ci aveva ripetuto con un filo di voce lo stesso concetto. Seduto sulla solita poltrona, non smuoveva passo oltre la soglia di casa da settimane. A nulla valevano i nostri sfottò, i tentativi di riportarlo in giro per la città, di notte, nelle lunghe passeggiate che ci avevano accompagnato alcuni mesi prima.
Non si riusciva a schiodarlo da casa.
Dalla sua poltrona.
Sembrava esserne divenuto la federa. Una federa umana, col respiro pesante e gli occhi infossati, stanchi di rimanere aperti. Riuscivamo a rendercene conto, ma nessuno di noi nel profondo voleva accettarlo. Dunque, rimanemmo spettatori muti di quel processo di decomposizione esistenziale che aveva preso in pieno il generale.
In quello stato di cose ripeteva sempre il medesimo concetto, che risuonava nelle nostre orecchie come una litania molto più insinuante del monito che avrebbe dovuto essere.

Non fate in modo d’essere tra voi solitudini che si fanno compagnia, rendetevene conto in tempo. Non scopritevi uomini soli che stanno in gruppo. Non mentite così spudoratamente a voi stessi.
Guardatemi adesso, e non sorridete.
La vecchiaia è una malattia. Una terribile malattia. Eppure la società la considera come una naturale evoluzione dell’età umana.
Niente cazzate, non raccontiamoci cazzate per consolarci, né fatelo voi con me per consolarmi. Non ho bisogno di roba del genere, e se non volete esser mandati a fanculo non v’azzardate a parlarmi in certi toni.
La vecchiaia è una maledetta malattia, semplice.
Ecco, vedetemi adesso.
Io sto pensando di compiere questo gesto, l’ho nitido qui dentro la mia mente, so come si fa, ho trascorso anni a compierlo naturalmente. Bene, adesso la vecchiaia mi impedisce di farlo. Un semplice gesto della mano, il semplice gesto del sollevare un braccio, il naturale passo cadenzato, elegante e scattante.
Nulla di tutto questo è più possibile.
La vecchiaia, col suo tempo pregno di pesantezza e rughe, mi vince e mi schiaccia su questa poltrona. Che ho imparato a odiare col tempo.
La vecchiaia è una malattia silente, belli miei. Una malattia che senza far rumore s’accompagna alla morte, con passi lenti.
Bene, qualcuno dirà che la morte ci accompagna fin da quando siamo in fasce, lo fa, questo è ovvio, ma in maniera discreta.
Convenite?
Invece la vecchiaia ne mostra il volto. E non è un bel vedere. Rattrappito e con gli occhi stretti stretti, abbagliati dalla luce più flebile. Occhi arrossati dalla polvere del tempo che si è sedimentata nel corso degli anni, senza che qualcuno abbia avuto la naturale idea di spazzarla fuori.
La vecchiaia ci coglie impreparati e ci mette nudi davanti allo specchio.
Nudi e cadenti.
Hai voglia a ritenerti giovane di spirito, quel corpo che lo contiene è a un passo dalla putrescenza, si sfalda come i pochi capelli che ti rimangono sul capo.
Il volto della morte ce lo sbatte notte dopo notte agli occhi, prima che questi si chiudano per la stanchezza, con il battito del cuore accelerato, nella paura che il bianco cuscino non sia più dello stesso colore allo spuntar del giorno.
Questa è la verità.
La vecchiaia è la malattia che ci avvicina a nostra sora morte. Una sorella che avremmo fatto a meno di avere tra le palle.
Eppure ci tocca.

Lo ritrovò Antonio. Riverso per terra col cranio fracassato e una pozza di sangue ancora non rappreso che lo abbracciava per l’ultima volta. Il povero portinaio si lasciò andare al più totale sconforto e come un bimbo senz’alcun ritegno iniziò a piangere rumorosamente, e a vomitarsi addosso per l’angoscia che quello spettacolo gli suscitava. Venne a raccoglier anche lui la figlia che casualmente si ritrovava in casa sua.
La giovane donna riuscì a contenersi, chiamò le autorità e accompagnò il padre inebetito dallo schock in casa. Giunse l’ambulanza entro pochi minuti ma non vi fu bisogno di un grande ingegno per rendersi conto che non c’era più nulla da fare.
Il vecchio generale aveva voluto metter fine ai suoi giorni.
E lo aveva fatto in un semplice gesto. Lasciandosi cadere dalla finestra della sua piccola biblioteca che dava nel pozzo luce. Un uomo giovane forse, a quel lancio avrebbe avuto la mala sorte di sopravvivere con qualche cicatrice, escoriazioni varie e ossa frantumate, pronte da ricostruire, ma un vecchio nel suo stato non avrebbe avuto la sfortuna di sopravvivere.
E così fu.
Il generale de Bernardi morì quel mattino di primavera vinto dalla sua vecchiaia. Scelse di farlo per anticipare la morte. Come in tutta la sua vita, mai era rimasto fermo ad attendere qualcuno o qualcosa, mai avrebbe potuto attendere anche stavolta la fine del cammino di quella sua irreversibile malattia.
Non riuscì ad attendere la morte, le andò incontro.

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