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Undici non è il mio nome

migranti

Undici non è il mio nome. M’hanno sempre chiamato Zì, per non confondermi con Azim, il cugino di papà. Azim è stato un combattente, un eroe, uno di quelli che ne senti parlare per generazioni, anche se non riesci fino in fondo a capire cos’avrà fatto mai, sai che c’è stato. Ed è stato un eroe. Uno di cui andare fiero, uno a cui non puoi calpestare il nome, sopratutto se vieni al mondo mingherlino, esile, con conati di vomito nascosti dietro l’angolo e una tosse impudente che ti prende alle spalle senza preavviso.
Così sono stato sempre Zì, per tutti.
E a tutti ho sorriso, facendo la spola da un vicolo all’altro. Portando sulle spalle piegate dalle folate secche del vento torrido verdure e frutta per quel che c’era, per quel che mi davano. E il mio tempo l’ho consumato più delle suole, durate appena un paio d’anni, giusto per sfondarne gli alluci ormai troppo grandi per essere contenuti da scarpe bambine.
Undici non è il mio nome, ché non saprei proprio cosa farne. Troppo lungo, troppe lettere da ricordare.
Zì, Zì è il mio nome, leggero, negli anni da esile ad agile, come me e le mie gambe difficili da seguire quando mi andava davvero di sollevare la polvere in faccia a chi pretendeva di mettermi a terra a piegarmi le ossa.
Quando presero Ayku lo presero bene e negli occhi della memoria lo vedo ancora e lo sento gemere, pressato da ginocchia violente fino a perdere il respiro nel pianto.
Ma Zì l’hanno visto sempre di spalle, loro, che correva.
Il giorno in cui il glorioso Azim sparì al tocco del sacro qualcuno come a prendersi beffe di me iniziò a chiamarmi a quel nome “Azim”, senza rendersi conto di quanto già fossi lontano da loro. C’era un mondo ad occidente da scoprire e i vicoli stantii del mio villaggio m’andavano stretti. Anche se bene non saprei dire cosa significa, ma l’ascoltavo sempre ripetere a mamma e papà, così tenendo il loro passo lento e placido mi sono messo dietro quella volta, senza tumulto ma con pazienza, come ripeteva nonna, “Zì, sii paziente, perché ogni cosa giunge per chi sa attendere”. Così nell’attesa di arrivare andavo dietro l’ombra sempre più curva dei miei vecchi. Fino alla fine del mondo mi dicevo dentro, fino alla fine di quel mondo che non riuscivo a sopportare più.
Eravamo rimasti in pochi ormai. Tutti i miei compagni di rincorse perduti, fuggiti, evaporati come il sorso d’acqua che distrattamente la sete ti faceva scivolare dalle labbra e giù per terra, nel cementizio incandescente che non ne lascia più traccia. Come poche tracce hanno lasciato sui miei occhi i sorrisi degli amici venuti via, saltati oltre il fosso, spenti da maschere abusate, terribili inganni senza animo né gioco.
Undici non è il mio nome, e neppure la mia età, a quanto sembra dovrei averne già quindici o qualcosa in più. L’età giusta per stringere il pugno dell’uomo che ci tira in stiva come bestie a ritorno dal pascolo ,stretti da recinti spinati, compressi l’uno nelle zampe dell’altro, vivi l’uno nel respiro dell’altro che diviene in un solo sospiro rantolo sordo e poi puzzo fetido di malinconia. E speranza svanita alla fine del viaggio, nella conta dei vivi e dei morti. Per questo andare che non avrà requie.

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