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Uno straccio e profumo d'ammoniaca


Da tre settimane non toccava un goccio. Niente soldi per farlo, neppure un centesimo per poter dire “adesso questo, domani il resto!”. Da tre settimane non saliva sacchetti della spesa colmi delle più raffinate schifezze preconfezionate, come era solito fare sperperando in un pomeriggio le poche decine d’euro che riusciva saltuariamente a racimolare. Confezioni colorate, provenienti dalle comunità più esotiche e lontane, e dritte a sfarinarsi sulla tua tavola, schifezze di quelle che ogni moderno supermarket sa darci. Non aveva denaro per nulla, e rovistava in casa alla ricerca delle sue distrazioni. S’aspettava che in momenti come quelli potessero venire incontro alla sua miseria, a lasciar lungo il cammino dell’angusto monolocale cicche non del tutto finite, e fondi di bottiglia, e fondi d’esistenza da scolare. Sentiva freddo intorno e oltre ogni limite dentro sé, ché sapeva bene d’aver attinto a tutte le risorse. Da mesi s’arrabattava a farlo. Aveva per un istante considerato il termine risparmio, ma era stato un attimo appena. S’era dato subito a sperperarlo per la stanza ripetendolo come un ossesso, mentre saltellava seguendo il ritmo di una canzone retrò di Billie Joel.
Discese al secondo piano.
Il silenzio che avvolgeva il condominio lo aveva reso inquieto. Soppesava il suo respiro, e non aveva neppure di che respirare. Forse l’andare dei suoi passi e la sua caratteristica distrazione non avevano mai dato sfogo a quel suono funesto, che adesso pareva aver assunto le sembianze della nebbia fitta. E saliva leggermente fino a coprire gli occhi.

Per un attimo ebbe la sensazione di non scorgere nulla davanti a sé. Da tre settimane non faceva scorta di cibo, e non ricordava più da quante ore non mandava giù qualcosa. Ricordò d’aver provato a bussare, forse ci riuscì perfino. Si ritrovò riverso sul pavimento, davanti alla porta della tette sode. Senza nessuno che avesse aperto. Non riusciva a capire quanto tempo era riuscito a passare così, come un perfetto imbecille.
Solo.
Provò a rimettersi in piedi ma il silenzio e il peso del suo stesso respiro lo tenevano giù. Un leggero ticchettare dal piano inferiore si fece sempre più acuto, fino a quando fu carne nelle sembianze di chi aveva cercato come ultimo rifugio all’inedia. La donna rimase sui suoi passi, scosse la testa, e accennò un sorriso. Ma era come se avesse pianto, e una leggera luce scivolò lungo il viso ancora dolce. Tese le braccia verso il correttore di bozze e tentò di metterlo sulle gambe. A fatica riuscì a poggiarlo alla parete, come si fa con gli arnesi e, prima che quell’arnese d’uomo venisse giù di botto, aprì l’uscio e trascinò l’amico verso la poltrona. L’uomo rimase disteso tre giorni e tre notti, nutrito e accudito dagli angeli del paradiso, nelle fattezze della vicina. Forse il destino non sapeva giocare come dio a dadi, e aveva mandato il marito della donna verso le colline romane ad accudir la povera madre morente, forse il destino giocava, e sapeva farlo con la vita di quello scrittorucolo da romanzetto popolare. Ma quei tre giorni rimasero a lungo nella memoria dell’uomo. E gli presero così tanto dall’anima da non fargli scrivere neppure un rigo, lasciando quel tempo vinto dai giorni alla memoria di due esseri mortali.
Il quarto giorno, indolenzito, il novello lazzaro si rimise in piedi. Senza nulla da metter sotto i denti, né forti sensazioni da assaporare tra le labbra. Come tre giorni prima, col fardello di una dignità ancor più piegata dagli eventi e dalla sua indolenza. La donna lo guardò alzarsi, goffo nel fare, passo dopo passo, come un vecchio, e alla vecchiaia pensò. Prese un foglietto e appuntò un numero invitando l’amico a chiamare.
Il nostro correttore di bozze risalì verso casa. Il simpatico operaio da Glenn Grant era stato fuori a lungo, e a quanto pare non era stato capace neppure di seppellire la madre. Gli era morta di nascosto, di primo mattino, quando era ritornato verso casa a rinfrescare i vestiti.
La donna di primo mattino sarebbe andata verso le colline, dolente a fianco dell’uomo che sapeva tradire così bene, ogni martedì, e in quelle occasioni particolari. Tre giorni amorevoli in cui il mondo fuori non ha nessun senso d’esistere. E adesso con gli occhi bassi a salutar la morte.
L’uomo del terzo piano ritornato solo nella sua stanza provò a scorgere un perché in ciò che gli accadeva. Non fu in grado di trovar risposta e ripiombò in un sonno profondo. Il campanile dalla periferia alla sua finestra bussò forte da farlo tremare fin dentro l’anima, scosse il capo, bestemmiò e prese il telefono. Componendo il numero scritto di corsa dall’amica non sapeva cosa stesse facendo, ma non aveva di meglio da fare. La voce burbera dall’altro capo, come si suol dire, mise insieme alcune frasi che il nostro non capì bene. Riuscì a carpire soltanto alcune parole, a sprazzi, come “ci serve”, “subito”, “pulizie”. E l’indirizzo. Quello gli fu chiaro.
Senza fretta alcuna si recò in loco.
Una casa di riposo, in cui i lamenti dei vecchi s’inerpicavano vorticosamente verso l’alto senza che nessun dio desse loro requie. Gli diedero un camice bianco, quasi lo vestirono per la scala, e uno straccio e un secchio, col sentore d’ammoniaca che pervadeva ogni parola, ogni gesto fatto davanti a lui.
Fece venti euro quel giorno.
Lavò come un folle il pavimento, e i servizi più e più volte, per sfuggire allo sguardo della morte che aveva occhietti piccoli e infossati, e camminava cigolando su sedie a rotelle avvolte dalla ruggine e si copriva con plaid a quadri larghi anche d’estate, a nascondere lo sparuto gruppo d’ossa. Il correttore di bozze strizzò lo straccio più e più volte per coprire i lamenti di uomini e donne che un tempo erano stati tali.
E pregò verso casa, dopo secoli in vita sua, che la natura non gli permettesse d’invecchiare, là dentro.
Così.

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