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You gotta pay the dues, if you wanna sing the Blues



Andavamo in giro per gli stati. Talvolta ci scambiavano per zingari in viaggio. Come piccole carovane multicolori e strombazzanti passavamo per i centri delle cittadine incitando la gente a uscirsene fuori dalle abitazioni misere. Erano periodi di miseria in cui tutto sembrava piegarci le ossa verso la polvere delle strade. Pochi vestiti ad addobbare molte anime in pena, senza un lavoro certo, senza una paga certa per far fronte a certi debiti, senza un vita certa per far fronte a certi peccati.

Andavamo in giro per gli stati, ed era un bel viaggiare.

Carovane di musicisti, mai sempre gli stessi. C’era sempre qualcuno che abbandonava lungo il viaggio. E dava il bel servito. Magari aveva in qualche ospedale sperduto del profondo sud la moglie sofferente di doglie, magari aveva ricevuto un offerta migliore, una scrittura in qualche orchestra di rilievo, magari aveva finito i soldi per la roba e senza non era nemmeno capace di dare un passo, magari aveva litigato con qualcuno e mandato a fanculo il resto.
C’era sempre qualcuno che abbandonava il viaggio, come se morisse in quel nostro cammino comune.
Zia da parte sua non abbandonava mai nessuno. Qualcuno la lasciò indietro, altri dissero che non era granché buona a far molto, altri l’adorarono per il resto della loro vita, pochi le negarono qualcosa, ma è noto che alla fine del suo viaggio non si ebbero i soldi per vergare una lapide col nome di battesimo, un nome breve, eppure così forte a pronunciarsi.
Ricordo che zia ne aveva storie da raccontare.
E mentre le narrava sorrideva con un fare malinconico.
Si finiva sempre con l’ascoltarla quella donna, e alla fine dovevi startene zitto.
Guai a te.
“Ruby”, mi diceva spesso, “tieni d’occhio la cottura di questo e quell’altro”, mentre lei si agitava interpretando le vicende che tutti dovevano ascoltare in rigoroso silenzio. D’altra parte la sua voce era incantevole, anche se non intonava i soliti blues e raccontava di tradimenti a go go. Certo è che quando si ritrovava sul palco, con quelle sue strambe mises, e le perline luccicanti a scivolare su copricapi improbabili, e acconciature nascoste da fazzoletti stretti sulle tempie, quasi fosse una mammy d’altri tempi, be’, quello sì che era puro spettacolo.
Venivano da ogni parte, non solo per lei questo è certo, almeno all’inizio. Non sarebbe giusto affermarlo, dire che tutti giungevano per assistere alla performance di Bessie, ma col tempo non v’era molto da dire in contrario. Chi si ritrovava al suo cospetto sapeva d’essere lì, per lei. Pronto ad ascoltarla, senza grilli per la testa, né altri pensieri. Soltanto l’idea di sentire quello che aveva da cantare, da raccontare con la sua voce.
Già, la sua voce.
Non una semplice, comune voce umana, femminile, ma qualcosa d’altro, difficile da definirsi.
La voce di zia Bessie pareva essere l’insieme di tante voci. Le voci di un’intera generazione accomunata dal sudore che sapeva ben riconoscere sui campi di cotone, una voce che diceva di quel sudore più di tanti resoconti di costume afro-americano che si vedono spesso in giro. Una voce che parlava di razze differenti, da mettere una di fronte all’altra per evidenziarne il diverso colore, una voce che superava gli zigomi pronunciati, le labbra ispessite dalla fame, la muscolatura nervosa, il culo dei neri, che a muso duro venivano puntualmente sbattuti fuori.
Da qualsiasi luogo.
Lei era quella voce e molto di più.
Per questo motivo giungevano da ogni parte ad ascoltarla. Per questo motivo sembrava di ritrovarla ovunque per la strada. Come se un’eco luminosa indicasse la via per arrivare a lei.
Zia Bessie era solita dire:
“Devi provare a pagare i tuoi debiti se vuoi davvero cantare blues amico mio. Così dicevano dalle mie parti, sai. Devi avere un’anima certo, devi sentirla quell’anima, dentro, nel profondo. Ma un’anima semplice non basta mica. Se hai un’anima e null’altro non puoi cantarne di blues. Per quanta voce tu creda di tenere in corpo non uscirà che uno spiffero di fiato, floscio. Bisogna aver peccato per potersi dire cantante di blues. Non è un fatto di fede, ma di vita vecchio mio. Il peccato, la presunzione di aver lasciato tracce di sé dietro le tue spalle, tracce dolorose, solchi che la gente ha ben presente e può ponderare a distanza di tempo. C’è musica e musica. Musica che ti scivola addosso come rugiada, musica che ti solletica, magari ti fa stare anche allegra per un quarto d’ora e giù di lì, come una scopata ben riuscita. Forse. Io non chiedo di cantare quella musica. Né voglio ascoltarla. Io chiedo di fare l’amore con la mia musica, avvertire qualcosa che vada oltre il momento, l’istante di un orgasmo ben riuscito, e quella sensazione trattengo tra le labbra. Che sia ricordo o nome non m’importa molto, resto consapevole di dare un volto ad un passato che so di certo non ritornerà.
Io voglio parlarci con la mia musica, dopo, ogni volta, pur sapendo che sarò spossata e stanca.
Questo è il mio blues.
Il blues ti deve lacerare la pelle, le ossa, la fica se ce l’hai. Vecchio mio non puoi mica capire, lo so bene. Considera che se tu non avessi mai sentito nulla nelle tue viscere, nel profondo, là sotto dico, dove hai provato a sentirti forte, ecco, senza niente di quelle sensazioni che tua madre avrà di certo rimproverato in qualche occasione, non avresti mai potuto cantare del blues. Del resto non so neppure se tu l’abbia mai cantato.”

[16 Novembre 2010]

(Pubblicato nel sito Malicuvata.it)

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