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Fabio Cremonesi

“Cinque domande, uno stile” ospita il traduttore Fabio Cremonesi. Tra i suoi numerosi lavori segnaliamo le opere di Kent Haruf, portate in Italia da NNEditore. La “Trilogia della pianura” che comprende: “Canto della pianura” (2015), “Crepuscolo” (2016), “Benedizione” (2015) e poi dello stesso autore: “Le nostre anime di notte” (2017 – per il quale ha vinto il premio Corriere della Sera-La Lettura come miglior traduzione del 2017), “Vincoli” (2018), “La strada di casa” (2020), e poi tra gli altri autori che ha curato ricordiamo “Ballo di Famiglia” di Leavitt (2021, SEM), “La casa vicino alle nuvole” e “Uomini di poca fede” di Butler (2021, Marsilio).

 

Tradurre è interpretare. Riscrivere. Con quale animo si pone di fronte ad un nuovo lavoro?
Preferisco di gran lunga l’idea di “interpretare” a quella di “riscrivere”; sarà che sono un grande appassionato di opera e di musica classica in generale, ma mi piace molto l’idea di essere colui che, mantenendosi aderente a una partitura scritta da qualcun altro, la rende fruibile anche a chi non è in grado di leggerla. Il mio approccio a un nuovo lavoro è quello di un artigiano, uno che non crea (come fa un autore o un artista in genere), ma trasforma qualcosa che già esiste. Oppure un traslocatore, che prende in custodia un oggetto e lo trasporta in un altro luogo e in un altro tempo facendo tutto il possibile perché l’oggetto arrivi “integro” a destinazione.

Le è mai accaduto di ripensare ad un frammento narrativo che, a distanza di tempo, avrebbe voluto volgere in maniera diversa?
Ehm, diciamo che non mi è quasi mai successo di rileggermi a distanza di tempo senza pensare “Oddio, ma è orrendo, come ho fatto a non pensare che in quest’altro modo sarebbe stato cento volte meglio!”. L’unica consolazione è che la stessa cosa succede a tutti i colleghi, compresi quelli ben più blasonati di me.

Qual è il libro che ha amato di più da lettore e quale le ha dato maggiori soddisfazioni da traduttore?
Il libro che ho amato di più da lettore non c’è, se non in relazione al tempo: a quattordici anni ho scoperto Conversazione in Sicilia di Vittorini, a sedici impazzivo per Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, poi è toccato a Berlin Alexanderplatz, a I promessi sposi, a Memorie di Adriano, a Il medico di corte: ogni età ha la sua passione bruciante.
Anche quella sulle maggiori soddisfazioni come traduttore è una risposta articolata: come soddisfazione personale, forse è stato Nell, una raccolta di novelle di una straordinaria poetessa austriaca, Christine Lavant. È stato il mio primo libro dal tedesco, un sogno che non pensavo si sarebbe mai realizzato. Da un punto di vista professionale ovviamente le maggiori soddisfazioni le ho avute da Kent Haruf (grazie ad Haruf sono passato dalla categoria “Qualsiasi cosa mi propongano da tradurre, devo accettare se non altro per la pagnotta” alla categoria “Posso permettermi di scegliere cosa tradurre e cosa rifiutare”, una svolta epocale!) e da David Leavitt (uno degli autori che mi hanno cambiato la vita: la prima volta che l’ho incontrato di persona, era come essere al ristorante con un supereroe della mia infanzia). Ora mi sto occupando di un’altra pietra miliare della mia vita professionale: il mio primo premio Nobel!

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a sé stesso “voglio vivere tra i libri e di libri?”
Sì, è stato quando ho deciso di smettere di lavorare in azienda. Ho preso un bel respiro profondo e mi sono detto: e ora? E ho aperto una piccola casa editrice, Gran Vía, che esiste ancora oggi, anche se nel frattempo l’ho venduta.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Ecco, questa è una cosa su cui invecchiando il mio punto di vista è cambiato molto. Un tempo mi pareva che incidere nella società fosse il fine “vero” e ultimo dello scrivere; oggi invece penso che se succede va benissimo (oddio, diciamo che può andare benissimo, ma nemmeno lo darei per scontato, dipende anche dai significati “politici” del libro…), riproporselo a priori invece mi sembra il modo perfetto per non riuscirci e, se capita, anche per rendersi ridicolo.

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