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Lettera a me stesso


Carissimo me, forse in qualche modo continuo a scriverti ma non riesco a lavarmi il cuore, né le ferite. Neppure il puzzo di fritto che porto addosso dall’infanzia scivola via, per quante parole riesca a mettere in fila.
Seduto.
Qui, gambe distese, schiena piegata in barba alla perfetta postura, e braccia tese, e mani in cerca di una donna distante. Seduto a sentire l’eco di un battere incessante. E non è la tastiera che freme, ma i miei denti che non la smettono di tremare. Forse il freddo della verità li tiene svegli, a batter il tempo di una musica che non riesco ancora a capire.
Non sono stato in grado di metter su un centesimo, neppure di decorare la mia bacheca con un titolo onorifico, uno di quelli che faccia gridare meraviglia. Ammirazione, e lode. Figlio di viandanti caduti in disgrazia. Nell’errore di un destino migliore che non hanno deciso d’avere, eppure poche lacrime e sospiri d’un vagito a venire hanno tracciato la strada del loro cammino.
Ho fatto migliaia di lavori, come prima mio padre, e prima ancora mio nonno, e credo forse suo padre. Ho lavorato nei giorni di festa, ma non ho concluso mai la paga d’un mese. Fuggito via prima che da qualche parte una stridula voce potesse dire “bene, assunto, confermato, ci vediamo”. Via, prima che il giorno divenisse prigione del mio disordine. Via, in panne, come un’auto dal fascino antico che non ne vuol sapere di fare strada e andare.
In perenne singhiozzo. In continua salita. Arrancante.
Non ho avuto molti sipari dietro cui nascondermi, e di occhiali da sole nemmeno a pensarci. Ma ho deciso fin da bambino che avrei recitato la parte dello sbandato, ché già allora quella del dritto mal mi calzava. E senza rendermi conto ho iniziato a sbandare su parole pesanti, provando a coprire il rumore di notti troppo silenziose per poter esser sopportate da solo. E disegnavo colline argentate, e passi leggeri a calpestare il cammino, e oltre il fiume posavo il mio sguardo, sapendo di potervi trovare quiete e ristoro, lontano da me e da quello che ero. E disegnavo vestiti e sorrisi, e colori con cui coprire case e chiese. E non avrei mai immaginato che la vita disegnasse vestiti peggiori, peggiori del peggio che siamo in grado di immaginare.
Carissimo me, non saprei neppure da dove iniziare per aiutarti a capire, a fare un quadro della situazione, stilare un bilancio.
Comunque ti scrivo,per avere risposta.
Da te.

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