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Racconto di Natale

S’alzò. Prese lo strofinaccio, con violenza lo passò di mano in mano, come a schiaffeggiarlo. Poi lo lasciò cadere e con gli occhi esausti dalla solita visione s’avviò verso il bagno.
L’umidità s’era avvinghiata ai bordi dello specchio incassato. Un triste biancore lasciava spazio ad un’immagine appannata al centro. Quel pezzo retrò di arredamento mostrava le rughe avvelenate di una donna stanca. Gli occhi chiari erano infossati in borse profonde da perderci l’anima, mentre un leggero tic nervoso disegnava un sorriso beffardo sulle labbra che un tempo avevano affascinato non pochi uomini del circondario. Adesso quelle labbra sapevano a stento mormorare. Nulla della voce
delicata del passato dava forza alle parole che la donna s’era stancata di mettere in fila.
Il giorno in cui Andrea cedette per inerzia alle pressanti richieste di Riccardo lei, ansiosa oltre ogni dire, ebbe un presentimento, di quelli che la fecero diventare oggetto di allegra derisione da parte di tutti in famiglia. Anche la madre, Eugenia, che qualcosa in vita sua aveva battezzato e molto seppellito disse a Giulia, la figlia tremante, che la prudenza di Riccardo non avrebbe condotto a quelle terribili conseguenze che le farcivano notti insonni. Che una bicicletta in un quartiere tranquillo come il loro
non avrebbe dovuto spingerla a concepire catastrofi e simili.
Ma Giulia sentiva, diceva di sentirlo.
Fino a quando ascoltò la voce sibilante di Andrea, tirata a forza da un pozzo senza fondo. Era sua, la riconosceva, eppure suonava sbiadita. Lontana dal solito squillo di chi non era mai riuscito a trattenere i decibel ogni qualvolta la chiamava per canzonarla, anche nei momenti di crisi coniugale. E quel sussurro con incedere da requiem le raccontava, diceva. Diceva cose che da settimane la sua mente farneticante d’ansie aveva ben definito, conosceva già. Nei minimi dettagli. Pertanto sul momento
pensò di rivivere un incubo ad occhi aperti, una scarica di terrore che s’era impossessata della sua veglia quotidiana. Impiegò un paio di giorni a comprendere che ogni cosa s’era fatta reale e fredda, immobile nelle mani paffute del figlio prudente e giudizioso.
Per quarantott’ore non toccò cibo, né acqua fino a quando stremata fu raccolta dal pavimento.
Pianse bagnando la camicia di Andrea per un tempo indefinito. S’addormentò e al risveglio, convinta d’aver vissuto il solito incubo prodotto dai timori eccessivi di una madre troppo premurosa, si guardò intorno. La luce soffusa della camera non disegnava niente di familiare e quelle orribili tende non aveva di certo potuto sceglierle lei. Fece mente locale e capì di non essere a casa.
Provò a sollevarsi, ma le gambe le impedivano di muoversi. Un urlo accennato di disperazione uscì fuori incontrollato. Andrea accorse dalla camera accanto. Gli occhi tremanti s’incontrarono, neri, rabbiosi quelli dell’uomo, sconfitti e lucenti i suoi.
Erano già trascorsi cinque anni da allora.
Riccardo rimase per alcuni mesi in ospedale senza che le sue condizioni mostrassero alcun miglioramento. Giulia incontrò ogni possibile rappresentazione medica del dispiacere declinato nei volti più anonimi che pensava potessero esistere. S’alternarono tutti, da primari a specializzandi, luminari e piccoli ragazzi alle prese con qualcosa di evidentemente più grande.
Andrea diede fondo a risorse umane ed economiche fino a quando non riuscì a portarsi a casa il figlio.
«Seguito, monitorato e curato molto più di quanto una clinica specializzata sarebbe in grado di fare.»
Così diceva, e ne era profondamente convinto, ai pochi amici che erano riusciti a resistergli accanto, nonostante quel lungo lugubre declinare verso il dolore che aveva preso lui e la moglie. Un tempo vitali e intraprendenti, adesso sempre più spenti nei giorni a venire. Quando Ibrahima entrò in casa Assante le luci erano spente e il silenzio imperava, tanto da far chiedere dal piccolo alla madre se quella stanza in cui erano entrati non era un altro centro di accoglienza, di quelli tristi in cui sembrava non ci fosse nessuno in giro fino a che non te li trovavi tutti stesi in camera, sopra e sotto al letto.
«No», disse Raja, tenendo salda la mano del figlio. «No, questa è una casa, piccolo, ed io ho un lavoro, adesso.»
Don Costante provava da anni a convincere Andrea, ma sopratutto Giulia, della necessità di trovare qualcuno che potesse accudire Riccardo permettendo ai due di provare a rimettere in piedi una vita dignitosa. Il vecchio prete da tempo in pensione non riusciva ad accettare lo stato d’abbandono nel quale i due coniugi s’erano rifugiati. Soli, con la ferma volontà di rimanerci. Distanti, smunti, finiti all’osso di una vita magra che nemmeno potrebbe descrivere quanto loro lo erano diventati. Magri. E sempre più spenti. E sconfitti, scivolati nella morte apparente in un pomeriggio domenicale come ce ne sono tanti.
Solitudine, dolore, e sopratutto rancore verso un destino che non era stato accondiscendente con i loro progetti.
Il vecchio prete, quasi cieco, ormai stanco di sentire la sua voce ripetere le solite parole s’era tenuto ben distante dal pronunciare frasi quali: «il signore ha disegni che noi insignificanti uomini non riusciamo a comprendere» e perle di rosario simili, che di certo avrebbero scatenato la furia repressa di Giulia.
Convinto com’era, anch’egli, alla veneranda età di novantadue anni e senza pecca di logica, della difficoltà di poter attingere ad un disegno migliore per un destino che ha deciso di sedare probabilmente per sempre le forze di un quattordicenne.
Provò a sollecitare il residuo di vita che era ancora rimasto nei due.
Alla fine riuscì a farli incontrare con Raja, una diciassettenne eritrea dai tratti regali, che il suo principe l’aveva generato in mare aperto cinque anni prima. E il ricorrere di anni, il tempo, il periodo affine convinsero Giulia che in qualche modo quel legame, esile, assurdo perfino tra il piccolo Ibrahima e il suo Riccardo doveva essere mantenuto.
Ma durò il bagliore di una notte, che già la mente della donna ritornò a rimestare nella cenere il dolore per quel figlio immobile da sempre.
Raja e Ibrahima entrarono in quella casa senza che nessuno si curasse più di tanto. Del loro essere, non delle esigenze, che la premura e la gentilezza endemica di Andrea fecero ogni cosa per non far sentire a disagio i due ospiti. Come tali furono trattati per lunghe settimane. Giorni in cui, nonostante la presenza di Raja, chiamata appositamente ad alleviarle il fardello, Giulia si ostinò a presenziare nel suo compito caritatevole.
A vegliare l’esile scheletro di vent’anni ormai erano in tre, e i due occhi piccoli e vaganti di un bimbo che non riusciva a comprendere granché di ciò che lo circondava. Scorgeva la madre che aveva deciso di nascondere il suo bel sorriso e che spesso si portava il dito sulle labbra ad indicare silenzio anche quando Ibrahima non aveva nessuna intenzione di parlare. Scrutava i gesti sospettosi di quell’uomo, alto dalla barba nera e spelacchiata che sembrava non guardare nulla. E aveva paura, una paura inconfessata d’incontrare gli occhi della donna.
Era accaduto una volta soltanto e al piccolo era bastato. Sembravano bianchi senza nulla dentro come quelli che era abituato a riconoscere. Erano gli occhi di un fantasma, s’era convinto. Giulia, meccanicamente come ogni cosa che da anni intraprendeva, si stava accingendo ad addobbare l’albero di natale. La madre glielo aveva imposto. Urlando. Eugenia, che mai aveva accennato ad alzare il tono cantilenante della sua inflessione, aveva in qualche modo provato a scuotere la figlia. S’era presentata quel pomeriggio del ventiquattro dicembre, senza alcun preavviso. Aveva ordinato presso la loro trattoria di fiducia una cena completa per cinque persone. Lei, Andrea, Giulia, Raja e Ibrahima, come fossero una famiglia reale, normale in qualche modo.
E Giulia aveva abbozzato, senza capire d’aver accettato. Adesso, come un meccano dalle braccia smunte e le mani diafane operava con fare assente. Stava facendo scivolare per inerzia un filo aggrovigliato di stelle sulla parte più difficile da raggiungere dell’albero quando Ibrahima entrò in salotto.
Il bambino rimase immobile, pietrificato. Non s’aspettava di trovarci nessuno là dentro, figurarsi il fantasma che tanto temeva. Non fu in grado di dir nulla né di accennare un minimo gesto. Fermo nel suo sguardo, fisso contro l’albero, incapace di evitare la donna.
Giulia si voltò, e come se non avesse mai visto prima di allora il bimbo le urlò rabbiosamente contro.
«Cosa guardi? Cosa stai guardando? Cosa credi di capire tu? Cosa puoi capire tu? Niente! Niente! Niente! Sai cos’è un albero? Sai cos’è un Natale? Sai cosa sono cinque, ti dico cinque natali trascorsi così? Con mio figlio immobile là dentro, attaccato a quel macchinario infernale. Tu lo sai cosa vuol dire tutto questo? Tu non puoi capire niente!»
Dalla cucina accorsero Eugenia e Raja, mentre Andrea ch’era sotto la doccia impiegò qualche istante in più per raggiungere la moglie.
Giulia iniziò a sbraitare, a dir cose sconnesse, a urlare e piangere. Eugenia le si avvicinò e come accadeva più di cinquant’anni prima la strinse a sé, consolandola. Andrea s’accasciò con l’accappatoio zuppo d’acqua sulla poltrona, Raja rimase sul ciglio della porta mentre Ibrahima fuggì via, veloce, come la madre gli aveva detto di fare qualche mese prima quando due suoi vecchi amici avevano preso a strattonarla fino a strapparle i vestiti per gioco. Ma quel gioco non doveva essere una gran cosa perché sua madre s’era messa a correre piangendo, fino a quando due signori in divisa li avevano fermati e portati a prendere una bella cioccolata calda e poi da quel signore vecchio decrepito vestito tutto di nero.
Adesso Ibrhaima ritornava a correre, ma non c’era molto spazio per farlo. Scivolò inciampando sui tappeti sparsi per la casa. Provò ad aprire un paio di porte senza esito. Poi, in preda al panico ritornò indietro, entrò nella stanza dove quella strana cosa stava da mesi immobile senza dire né fare nulla e fuori da ogni sua volontà iniziò a piangere. E lo fece in silenzio, continuando a guardare quel viso bianco, magro e senza sorriso.
Più piangeva e più si avvicinava a quel corpo. Ogni tanto gli occhi si soffermavano sul piccolo televisore che mandava strane immagini, verdi e rosse. Come lampadine che giocavano a nascondersi. Piangeva, incapace di contenersi. E si vergognava. Eppure non riusciva a fermarsi. Nel pianto e nel passo. Come un sonnambulo finì la sua breve passeggiata sulla sbarra del letto, che gli copriva gli occhi. Li abbassò, continuando a piangere. Poi si spostò, dalla parte in cui il ferro era più basso e provò a salire.
Qualche ora più tardi, lasso di tempo in cui nessuno s’era dato pensiero per la sorte del bambino, dopo averlo cercato ovunque per la casa, Giulia entrò in punta di piedi nella camera del figlio. Ibrahima dormiva accanto a lui.
Una commozione profonda la colpì, d’improvviso gli occhi si riempirono di una luce splendida a vedersi, difficile a dirsi.
La stanchezza e lo stress accumulati in tutti quegli anni gli avevano, però, impedito di notare che il braccio del suo Riccardo cingeva la spalla del bambino.

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