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Raul Montanari

Raul Montanari, scrittore e traduttore è oggi ospite della rubrica “Cinque domande, uno stile”. Ha esordito nel 1994 con “La perfezione” (Feltrinelli, – premio Linea D’Ombra di cui si festeggiano i 25 anni nella nuova edizione a cura di Baldini+Castoldi), tra le sue numerosissime pubblicazioni ricordiamo: Sei tu l’assassino (1997, Marcos y Marcos), Strane cose, domani (2009, Baldini+Castoldi, premio Strega Giovani, premio Bari e premio Siderno 2010), Il regno degli amici (2015, Einaudi Stile libero – Premio Vigevano 2015), La vita finora (2018, Baldini+Castoldi – Premio Provincia in Giallo 2019). In collaborazione con Aldo Nove e Tiziano Scarpa ha scritto Nelle galassie oggi come oggi. Covers (2001, Einaudi).

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

La sensazione è stata descritta molto bene da Michelangelo Antonioni con la sua famosa metafora del Big Bang. Nessuno di noi ha assistito al Big Bang, ma ci troviamo tutti su detriti che si allontanano nello spazio e nel tempo, quindi dobbiamo immaginare che questa primordiale esplosione sia avvenuta. Con l’idea creativa è la stessa cosa: è impossibile vedere il momento in cui nasce. Ti ci ritrovi dentro, c’è già, eppure un attimo prima non c’era.
Naturalmente bisogna anche intendersi su cosa sia un’idea creativa. L’interpretazione più ristretta del concetto è quella che dava Cerami e la considero ancora un buon punto di partenza per riflettere: l’idea creativa sarebbe il soggetto, il nucleo narrativo. Cerami diceva che, ragionando così, la somma di tutti i momenti di creatività “pura” di un narratore dovrebbe ridursi a pochi minuti per un’intera vita. Obiezione: anche mentre si scrive quella data storia si è creativi, ossia si inventa continuamente in termini di rappresentazione, stile e così via.
Aggiungerei che l’idea narrativa si può paragonare a una melodia semplice. Ci sono davvero molte somiglianze.
Anzitutto un scrittore non ha la possibilità di produrre idee narrative infinite, così come un musicista non può produrre melodie infinite – dopo un po’ la vena si esaurisce e cominciano a ripetersi o a lavorare molto di mestiere, sul come e non sul cosa.
Poi un nucleo narrativo ha in comune con un’idea melodica il fatto che rimane inalterato anche se cambia medium. Il famoso “sol sol sol Miii – fa fa fa Reee” identifica subito la Quinta di Beethoven, anche se invece di essere eseguito da un’orchestra lo faccio io col fischio e per di più cambiando tonalità. Allo stesso modo, se dico: un uomo uccide il padre e fa l’amore con la madre, si pensa subito: Edipo, anche se questo Edipo lo ambiento in Patagonia o in una colonia di termiti.

 

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Bisogna fare delle distinzioni.
Anzitutto nel romanzo non è affatto evidente: il romanzo tende a rappresentare quella retta, i cui estremi si perdono fuori vista, che chiamiamo vita; la decisione di interrompere la retta e farne un segmento di retta è sempre arbitraria. Il romanzo non ha una conclusione “naturale”. Finisce quando l’autore decide di finirlo.
Per quanto riguarda il racconto, come sappiamo ci sono due poli estremi in mezzo ai quali si collocano quasi tutte le narrazioni brevi.
Uno è quello del tradizionale racconto-novella, che è orientato al finale e trova senso proprio nel finale: in quel caso certamente l’autore prova quella sensazione di “necessità” del chiudere.
C’è però anche il racconto aperto, quello alla Cechov per intenderci, poi ripreso da Hemingway e da moltissimi narratori e narratrici in lingua inglese, che, per usare le parole dello stesso Cechov, dev’essere “senza trama e senza finale”. Questo racconto ha una filosofia molto vicina a quella del romanzo e ripropone la stessa arbitrarietà della scelta di dove cominciare e dove finire.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Ce ne sono stati due e sono coincisi con due fallimenti.
Il primo è stato a sedici anni, quando ho capito che non sarei mai diventato un vero campione di scacchi nonostante gli ottimi risultati avuti fin lì: mi mancava il talento per aspirare a fare di una passione un vero lavoro.
Il secondo dieci anni dopo, a ventisei, quando mi sono reso conto che fare il pubblicitario nella Milano da Bere (era l’86!) era stato bellissimo ma non mi bastava più. In quella circostanza il problema non era una mia inadeguatezza al campo che avevo scelto, ma un’insoddisfazione.
In entrambi i casi, in particolare nel secondo, l’improvvisa percezione dell’avere una vita sola è stata decisiva. Spesso viviamo nell’illusione che questa sia solo la prova d’orchestra, invece è già il concerto.

 

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Sì, soprattutto all’inizio.
Si comincia sempre imitando qualcuno, ossia aggiungendo pagine ai libri di uno o più autori che amiamo – ma direi proprio che se si parla di stile questo autore è uno, o perlomeno è uno per ogni specifico testo che scriviamo. Nel mio caso: Poe, Kafka, Borges.
Deve arrivare un momento in cui separiamo il nostro gusto di lettori dal nostro gusto di scrittori. Lo stile di un autore molto amato può diventare una trappola nel caso non sia lo stile adatto a noi, ossia uno stile in grado di evolvere con noi.
A quel punto è meglio fermarsi, leggere moltissimo e sperimentare altre scritture, ossia partire da altri modelli per sviluppare la nostra voce.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Sono convintissimo che l’unico compito della letteratura consista in questo: lo scrittore guarda il mondo e lo racconta onestamente al lettore. Voglio dire, glielo racconta come lui lo vede; gli dice la sua verità sul mondo.
Solo nei libri c’è la verità.
Il mondo ci viene sempre presentato in modo deliberatamente alterato, manipolato, prima dalle parole dei nostri genitori e dei nostri amici, o dei preti, o degli educatori; poi da tutti quello che abbiamo intorno e in particolare dai media. In un libro possiamo trovare la verità, invece, se l’autore ha rinunciato a fare il burattinaio e a imporre ai personaggi qualcosa di diverso dalla loro verità umana. Per esempio rendendoli più simpatici di quanto gli esseri umani siano, allo scopo di ottenere la gratitudine e l’assenso di lettori in cerca di conforto.
Cito per la seconda volta Hemingway: la cosa più difficile da ottenere con la scrittura è una prosa onesta sugli esseri umani.
Naturalmente uno scrittore può porsi obiettivi in apparenza più ambiziosi. Per esempio può pensare di fare un discorso politico sul mondo, di non limitarsi a rappresentarlo così com’è ma suggerire delle soluzioni, delle ricette. Tuttavia sono convinto che la forza di questi libri sia sempre la loro capacità, quando c’è, di fotografare il mondo, più che l’intenzione di modificarlo.
I libri nascono sempre da un’intenzione dell’autore (fare soldi, per esempio, e cito una delle più sane) ma, per fortuna, la trascendono.

 

 

 

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