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Tag: musica

Alla fine


Alla fine hanno hanno chiamato la puttanella. Di certo più adatta al contesto, senza ombra di dubbio. Con occhietti e forme da pin-up, avrà la scena tutta per sé. Hanno scelto la giovane emergente, a discapito della mia decrepita vecchiaia, che sei condannata a vedere ogni giorno, mia cara. L’hanno scelta bene, niente da dire. Luccicante, pronta a raccogliere le luci dei fotografi di tutto il mondo. Lì, schierati come un plotone d’esecuzione, in fremente attesa, magari di un passo falso, una caduta, uno scivolone dei regnanti senza corona che s’accingono a debuttare. Loro, in formazione d’attacco, pronti a colpire con proiettili fulminanti, che catturano il momento, s’illudono di farlo. Stanno impalati, anche per ore, puntando, rigidi sulle gambette, in attesa. Di un qualcosa che vada storto. Perché le grandi notizie nascono da lì, lo sappiamo, dai guai. Mai che uno scoop memorabile sia venuto fuori dalle bellezze del mondo, non lo ricordo, e non penso di sbagliarmi, magari, chissà, forse, come tutto. Che dirti? Sono caduta in errore molte volte e per questo non ho mai pensato di far la morale a nessuno, né di mettermi ritta in piedi, ferma sui miei saldi principi, a predicare. Il vento avrebbe sorriso delle mie parole, ne sono certa, si sarebbe impettito sugli alberi, sfrondandoli del superfluo, di tutto quel superfluo che le mie parole avrebbero caricato per la strada, la mia. Ho semplicemente provato a viverla questa donnaccia d’esistenza, che molto promette e poco concede, e ho cantato una manciata di blues, e senza ombra di smentita, non amo le false modestie, ecco, posso affermare che qualcuno di questi m’è uscito fuori veramente bene, sfido a farlo meglio di me, a cantarlo, dico, a viverlo, forse. Ho scelto mia cara, e sbagliato. Ma in una vita degna d’esser chiamata tale, in una vita vissuta, come dico io, è necessario sbagliare. La misura dell’errore ti da la grandezza della scelta, e poco male che le cose vadano a puttane, ne siamo

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Viaggio immaginario di un giovane musico ateniese


All’epoca in cui si era soliti discutere per la strada, passeggiando verso l’agorà, abituale luogo di ritrovo delle menti più eccelse e dei mercanti più accorti della città, uomini rimanevano assorti in dissertazioni più o meno profonde sull’essere e il mondo, il denaro e l’affare, la bellezza e la sua idea; all’epoca in cui l’uomo sapeva di poter rispecchiare la natura in tutto quel che faceva, all’epoca in cui il dotto scherniva il fango e l’argilla e le mani che la plasmavano, all’epoca in cui tutto era imitazione, secondo canoni e armonie, e per nulla creazione, all’epoca in cui la musica era numero e non suono, a quell’epoca dunque, viveva un bimbo lontano da quel mondo, escluso dai rituali della città, il piccolo Meloi, privo della parola e senza riflesso negli occhi, si aggirava tentoni per i vicoli del borgo. La madre, una donna mite e gentile, lo accudiva, per quanto le era possibile con sentimenti che spesso si confondono: dedizione e amore. Il padre, un uomo immerso e rapito dall’alta società, impegnato su grandi orizzonti, per nulla partecipava alla crescita, e alle conseguenti vicissitudini del figlio.

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