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Alla fine


Alla fine hanno hanno chiamato la puttanella. Di certo più adatta al contesto, senza ombra di dubbio. Con occhietti e forme da pin-up, avrà la scena tutta per sé. Hanno scelto la giovane emergente, a discapito della mia decrepita vecchiaia, che sei condannata a vedere ogni giorno, mia cara. L’hanno scelta bene, niente da dire. Luccicante, pronta a raccogliere le luci dei fotografi di tutto il mondo. Lì, schierati come un plotone d’esecuzione, in fremente attesa, magari di un passo falso, una caduta, uno scivolone dei regnanti senza corona che s’accingono a debuttare. Loro, in formazione d’attacco, pronti a colpire con proiettili fulminanti, che catturano il momento, s’illudono di farlo. Stanno impalati, anche per ore, puntando, rigidi sulle gambette, in attesa. Di un qualcosa che vada storto. Perché le grandi notizie nascono da lì, lo sappiamo, dai guai. Mai che uno scoop memorabile sia venuto fuori dalle bellezze del mondo, non lo ricordo, e non penso di sbagliarmi, magari, chissà, forse, come tutto. Che dirti? Sono caduta in errore molte volte e per questo non ho mai pensato di far la morale a nessuno, né di mettermi ritta in piedi, ferma sui miei saldi principi, a predicare. Il vento avrebbe sorriso delle mie parole, ne sono certa, si sarebbe impettito sugli alberi, sfrondandoli del superfluo, di tutto quel superfluo che le mie parole avrebbero caricato per la strada, la mia. Ho semplicemente provato a viverla questa donnaccia d’esistenza, che molto promette e poco concede, e ho cantato una manciata di blues, e senza ombra di smentita, non amo le false modestie, ecco, posso affermare che qualcuno di questi m’è uscito fuori veramente bene, sfido a farlo meglio di me, a cantarlo, dico, a viverlo, forse. Ho scelto mia cara, e sbagliato. Ma in una vita degna d’esser chiamata tale, in una vita vissuta, come dico io, è necessario sbagliare. La misura dell’errore ti da la grandezza della scelta, e poco male che le cose vadano a puttane, ne siamo circondati, di continuo. L’importante è scegliere. Di fare. Ché non tutte le scelte sono errori, sebbene… sebbene… Discorsi da vecchia rincoglionita dal vizio, dirai, lo so, lo leggo nell’espressione del tuo viso. Non sei tanto brava a nasconderti, mia cara, non hai mai tradito tuo marito, se mai ne hai avuto uno. Tu con quel visino lì non ne saresti capace. Di tradire, dico, di mentire. Brava a correre per i corridoi, pronta al richiamo, all’intervento, a rassettare, a rimboccarmi le coperte, a tenermi il braccio sollevato per l’iniezione quotidiana, e null’altro. Gli basterebbe il ritorno a casa, al maritino, il tuo dico, per capire che qualcosa è andata storta. Lo vedo bene. Tu credi che qui, sdraiata per come m’hanno infilato tra lenzuola ammuffite dal dolore, ecco, io sia solo capace di dire puttanate cariche di rancore, magari verso quella lì, che sta per cantare la mia canzone, o verso loro che l’hanno messa al posto che mi spetta. Lei, tutta agghindata nella sua bellezza. Ma non dura, dico, quel vestito, qualche anno e non di più. Adesso, con tutti i ritrovati dell’estetica, forse anche dieci anni, voglio essere generosa, ma le sue forme crolleranno, è per tutte. Il tempo ci devasta, e più t’hanno chiamato bella, più hanno annusato ogni tuo movimento giovane e fresco, più il puzzo putrido degli anni segnerà il tuo volto, anche il tuo visino verrà infestato dagli anni, e dai peccati che sarai capace di perseguire, anche se minimi. Vorrei vederla quella tra cinquant’anni, per come sono riuscita ad esserci io. Vorrei proprio vederla aldilà del vestito brillante, che anch’io modesti a parte ho saputo ben indossare. Adesso sta lì, e splende, al centro della scena, mentre il plotone attende che venga giù merda da filmare in qualche modo, perché si sa, la bellezza non vende granché. Alla fine ci sono bellezze che tendiamo a nascondere, e copriamo di lerciume. Lo raccattiamo perfino dalle strade quando non ne abbiamo abbastanza in casa. Sappiamo bene dove andarlo a rintracciare. Nei vicoletti squallidi di periferia. E lo vogliamo perché sentiamo d’averne bisogno, perché crediamo, stupidamente, che da quel lerciume che c’infiliamo dentro possa nascere bellezza. Ma forse l’ho già detto, e forse in qualche modo anche tu con quel visino dolce finirai per annoiarti delle mie farneticazioni, meglio guardare lì, sullo schermo. Televisioni d’ogni dove collegate per vedere loro, i regali senza corona al debutto. Ma forse te l’ho già detto, qualcuno afferma ch’io mi ritrovi a ripetere le stesse cose durante le giornate, povera me, o povero chi si ritrova a dovermi ascoltare per carità cristiana, buona quella poi. Forse l’ho già detto, non voglio insistere, ma renditi conto che lì, al posto di quella bella, avrei dovuto esserci io, e invece no. Alla fine hanno scelto un’altra. Per carità di dio, una delle migliori in circolazione, ma quella canzone è mia, lo sanno tutti. Chiedetelo alla gente, e la gente vi dirà che è mia. So bene che c’è differenza. Ma non scorgo quella distanza nel fisico, ovvio a dirsi. Lei sembra essere una dea, almeno nelle movenze, non direi la stessa cosa della voce, se la paragoniamo a gente come Billie, Ella, Aretha, per non tirare in ballo me, ma non sarebbe da signora. Ed io ancora mi sento d’esserlo. C’è una distanza incolmabile tra noi, almeno cinquant’anni credo, e di vita, vita vissuta, non trascorsa come una lancetta su un orologio può segnare. Il tempo non è mica uguale per tutti, e tutto. Dicono che sia ammattita. Forse, o forse no, ma ascoltami cara mia, se puoi, prima che inizi il ballo. Ci sono cose che il tempo copre, o forse neppure, sono i giorni a coprirle, con i nostri affanni, e le incombenze e le continue ricerche di ciò che manca e mai avremo davvero, e le attese vane, e quelle cagate di promesse che riescono soltanto a mantenerci sospesi e senza posa. Così, alla fine di tutto il tempo allontana, ma non passa davvero. Ci hanno insegnato che così deve essere, e ci siamo attrezzati d’orologi d’ogni sorta. Perché in fondo ci crediamo. Crediamo, così come c’hanno insegnato debba essere. E talvolta preghiamo, perché al credere s’associa la preghiera. Eppure i pazzi non lo sanno del tempo che scorre. E molti di loro non sanno neppure leggere l’ora (lieta sorte che vorrei aver avuto in dono). Tanti altri non hanno un orologio per farlo. Altri non si sono mai chiesti cosa sia mai un orologio, chiedono invece i giochi di ieri, perché degli insignificanti vent’anni appena trascorsi non hanno memoria, né sanno che farsene… e tengono quelli migliori nella loro mente… Ecco… Mi guardo alla specchio, non sono matta – anche se qualcuno lo sussurra nelle altre stanze, lo sento, ma non do loro retta. Se avessi considerato tutte le dicerie sul mio conto sono certa non sarei arrivata qui. E chissà qualcuno potrebbe anche pensare peggio per te, cara mia. D’esser arrivata qui, dico. Ma alla fine ci sono arrivata. E forse, forse, che dirti, vorrei tornare indietro, al tempo in cui anch’io rifulgevo di bellezza, e le luci segnavano il cammino, e il plotone di idioti stava lì per me, ad attendermi.
Alla fine.

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