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Invitation to the blues


La pioggia scendeva fitta e lieve sulla strada. Goccia a goccia estenuante ritmo della natura, in un concerto che il caos metropolitano non permette di ascoltare. L’assenza del vento la faceva cadere dritta sulla faccia, la sua. Camminava incurante, senza ombrello, nè altro tipo d’indumento che potesse metterlo al riparo dal piscio del cielo. Camminava mentre la gente lo scrutava con occhi sospettosi.
Il correttore di bozze continuava nel suo andare, e se qualcuno avesse potuto mirarlo da vicino sarebbe rimasto ancora più di stucco. Camminava nella pioggia e a ogni passo ne seguiva il ritmo. Camminava e abbozzava un sorriso, come in preda ad una crisi isterica.
Così dava l’impressione fosse.
Così non era.
Poteva dirsi felice, in qualche modo.
O pieno di soldi. Era stata una giornata di grazia.
Considerava che mai negli ultimi anni s’era ritrovato in tasca tutto quel denaro. E a pensarci bene non è che nel corso della vita, almeno fino ad allora, fosse stato avvezzo a maneggiarne.
Negli ultimi mesi s’era visto allo specchio curvo, e goffo sulle gambe, a raccogliere monetine negli angoli della stanza, a cercarne altre sotto le innumerevoli scartoffie che teneva sparse per il pavimento, tra gli scaffali, dentro le sparute stoviglie che ancora resistevano alla sua innata incuria.
E tutto quel trambusto per arrivare a due euri e rotti.
Cifra sufficiente a dotarlo di una decina di paglie da sfumacchiare nelle lunghe ore di scrittura sedentaria, che lo avvolgevano come una prigione. Talvolta aveva ceduto nell’impresa sapendo bene che nei minuti precedenti era riuscito a rastrellare ciò che era possibile e, come pepite per i cercatori d’oro, aveva esaurito il filone delle minutaglie. Insomma in quelle giornate di miseria, bivaccava come uno zombie in casa senza l’ombra di una moneta di rame, così, neppure per il gusto di poter giocare al Paperon de’ Paperoni di turno e la sua fortunata “numero uno” che passa da una mano all’altra.
Certo, in quel mattino d’ottobre per la strada, continuava a non aver monetine nelle tasche, ma sorrideva mentre le pupille si allungavano oltre il mazzo di fogliettini di carta che stringeva tra le mani. Lerci, portatori dio solo sa di quanti e quali batteri, sbattuti in faccia per errore, per rivalsa, tenuti tra le pagine di libri dimenticati, passati di dita in dita, soffiati via dal vento, scivolati oltre il bancone nelle notti di bisboccia, abusati in brevi rantoli di piacere. Fogliettini sui quali si fondava la società che pensava di voler cambiare, fogliettini che gli cambiavano umore alla sola vista, e lo facevano migliore agli occhi della gente. Li aveva contati e ricontati, non per avidità, ma col sorriso sulle labbra in attesa che qualche disperato di passaggio, più disperato di lui, li chiedesse come rimborso alla sua disgrazia.
Sorrideva e contava.
Milleottocentocinquantacinque.
Tutti in una volta, tutti suoi. Quel mattino, e non erano che le undici. Giornata di grazia, niente da dire. S’erano dati appuntamento, non c’era altra spiegazione, anche se non riusciva ancora a rendersi conto di quella manna. Altro non era che il frutto del suo lavoro, lo sapeva bene. Eppure mai lo aveva considerato tale e mai avrebbe pensato potesse chiamarsi a quel modo. Scrivere non era un lavoro, non lo costringeva a mettere sveglie prima che l’alba si destasse dal letto incazzata, nè a indossare tutine attillate da imbrattare d’olio. Forse aveva qualche scadenza da rispettare, ma un segno sul calendario non lo faceva lavoratore, ne era certo.
Scrivendo era riuscito a racimolare quel cospicuo gruzzoletto. Certo, sapeva bene d’essersi imbattuto in una pura casualità, che mai più avrebbe avuto in mano tanto denaro per la sua scrittura, ma si crogiolava nell’idea di ciò era accaduto, e gli bastava.
Forse più del denaro stesso.
No, quello no. Niente cazzate, né poeticherie.
I soldi erano soldi, e con i soldi avrebbe fatto incetta di night, whisky, sigarette, e in fine avrebbe pure pensato di poter pagare qualche mensilità. Ok, una, forse due. D’altra parte a quello pensavano già da tempo le due sostenitrici del secondo e quarto piano.

La sera prima la casa editrice/stamperia s’era fatta viva dopo secoli dicendogli che era pronto il compenso per la correzione degli ultimi venti libri cui aveva lavorato. Ecco, non erano proprio dei puntuali pagatori, ma poco male, per ciò che valeva.
La parte maggiore del bottino, invece, derivava da una delle più piacevoli ruberie che ricordava. A tornare indietro con la memoria s’era ritrovato a bluffare a carte nelle improvvisate bische tra compagni di scuola, forse ancor più indietro qualche merenda fottuta di sfuggita dalle botteghe di paese e nulla più.
Razzie da calzini corti.
Quel furto meraviglioso, invece, lo teneva tra le mani, più di mille euri per una tesi su Pavese.
Quando una vecchia amica della prodiga amante del quarto piano gli propose l’incarico, quasi sbottava a ridere.
Esser pagato per scrivere di Pavese?
No, non poteva crederci. Una presa per il culo?
No.
Una domanda, alla quale necessariamente era da rispondere sì.
E non finiva lì.
La tesista, una figlia della Roma bene, era una delle ragazze più fighe che gli occhi suoi avessero mai incontrato. Finirono a letto sfiorati dal bagliore di una luna silenziosa, mentre il cigolio della vecchia rete scintillava nella notte e riempiva la stanza, come un falò. Dopo settimane di incontri appassionati, e di ore rubate alla lettura di Pavese, lei con sguardo malizioso gli propinò un affare. Avrebbe intascato da sé la somma sganciata dalla madre per il lavoro, mentre lui, il fascinoso poeta mentitore d’occasione, sarebbe stato ripagato con più calore nell’inverno a venire.
Il correttore di bozze disse sì, ma era troppo sbronzo quella notte per poter ricordare. Cosicchè quando la bella laureanda seppe che era stato liquidato con la somma pattuita impazzì, e diede un taglio alle notti infuocate non prima d’aver tentato di dare un taglio netto all’avambraccio destro dello scrittore con un pezzo di vetro.
Tutto in quel mattino, milleottocentocinquantacinque e qualche graffio e gli occhi della giovane furenti come mai aveva visto lo avevano portato ad amarla, lì in quel momento, in un istante. Poi aveva salutato col solito sorriso beffardo ed era nuovamente uscito in strada, mentre l’incedere della pioggia lieve si posava sul cammino.

Il correttore di bozze, zeppo di soldi da farsi schifo, entra nella prima trattoria e ordina dall’antipasto al dolce, per due volte, e beve un paio di litri di rosso locale, e si fionda al cesso restituendo tutto e qualcosa di più a Giustini & Figlio.
Poi tra le nubi che si diradano, e la luce del sole che asciuga le sue scarpe, s’incammina verso casa, barcollando.
E si rivede riflesso nella vetrina di un grande magazzino nei panni dello straccione che qualche anno prima gli tagliò la strada per le vie di Stoccolma. Vestito a cipolla con strati di luridi cenci recuperati tra l’immondizia di un paese civile, a rovistare nei cassonetti in cerca di qualcosa di migliore. E lui, con quasi duemilaeuro sonanti nelle tasche non ancora sfondate della solita giacca, si lancia come un ragazzino divertito tra le miserie della spazzatura, e si ritrova tra le mani un chitarrino scordato.
Lo prende, lo scruta, e infine lo porta con sé a casa.
C’era stato un periodo nell’adolescenza, breve in verità, in cui si dilettava di chitarre. E le rifiniva, le curava, le riparava, levigava il ponte, incollava la tastiera, sistemava ferretti, le curava come pazienti doloranti.
Così provò a fare con quel relitto che lo aveva riportato indietro nel tempo. Impiegò quattro giorni in cui nulla esisteva al di fuori di lui e la sua chitarra. Alla fine uscì a comprare un set di corde nuove, le montò, tese le chiavi, e come un automa iniziò a strimpellare una vecchia melodia.
Pochi accordi messi su negli anni del liceo, ispirati dalla musa di allora. Tante ne erano passate nei suoi pensieri, così come tante sigarette a raschiargli un ugola mai stata pura.
Sorrise delle sue stonature.
S’alzò e rimise il cd di Tom Waits, solo dopo essersi spogliato del tutto, aver preso in mano la bottiglia di Laphroaig, ed essersene scolata metà.
Poi lanciò “Invitation to the blues”, e rivide gli occhi di lei ancora vivi e in fiamme. E sentì le voci del passato rincorrersi per la strada, lì, tutte racchiuse nella sua mente e vide le energie di allora bruciate e consumate dal tempo.
D’improvviso la solitudine di quella stanza gli sembrò insopportabile e uno strato di malinconia scese inesorabile sulla pelle. Soltanto dopo qualche minuto si accorse che in casa non c’era più il ritmo del cielo a coprirgli il viso, ma era ben altra pioggia.

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