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Enrico Macioci

“Cinque domande, uno stile” ospita lo scrittore Enrico Macioci. Autore prolifico, ha esordito con Terremoto (2010, Terre di Mezzo). ricordiamo tra gli altri “Breve storia del talento” (2015, Mondadori), “Lettera d’amore allo yeti” (2017, Mondadori) e “Tommaso e l’algebra del destino” (2020, SEM). L’ultimo romanzo è “Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia” (2022. TerraRossa Edizioni).

(foto tratta da FB)

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
La sensazione è quella di potere tuffarmi in un braccio di mare – o un lago, o un fiume – abbastanza vasto da non lasciarmi scorgere l’altra sponda, e tuttavia non abbastanza vasto da indurmi alla resa. E’ una sensazione di fiducia, forse di fede: non affogherò, per quanto debba nuotare raggiungerò l’altra sponda. Dopo parecchi anni di esperienza, ormai so riconoscere l’attimo di pienezza, entusiasmo, tremore, vitalità e slancio che contraddistingue la potenziale nascita di una storia.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Più spesso necessaria che evidente. Di frequente, leggendo i romanzi altrui, arriva un punto in cui penso: doveva fermarsi qui. Se il romanzo si fosse interrotto qui ne avrebbe guadagnato in forza, mistero e ambiguità. Fermarsi è sempre difficile, anche perché ogni romanzo si configura quale un lavoro potenzialmente infinito. Alcune volte tuttavia – non spesso – succede che la storia raggiunga una conclusione davvero organica. Potremmo dire che muore di vecchiaia. Allora non ci resta che assecondarla.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Uso un’espressione impegnativa: la vocazione c’è stata fin da ragazzino. La consapevolezza matura di realizzare quella vocazione è scattata invece a ventisette anni. Nel mezzo, diciamo che mi ero perso.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile per me conta molto meno della voce – che è una combinazione di immaginario, postura verso il mondo, visione delle cose, topoi. Lo stile deve aderire nel miglior modo possibile alla storia; se non accade, se diviene preponderante rispetto alla storia, lo stile si trasforma in uno sfoggio sterile di tecnica, o in mestiere. Ciò non significa che io non attribuisca alla lingua il giusto peso; posso rivedere una frase anche molte volte, spostare anche solo una virgola, cambiare un aggettivo con un altro per via di un’assonanza che m’infastidisce. L’importante è non smarrire lo scopo ultimo della stesura di un romanzo: la realizzazione di un mondo autonomo e vitale che prima non esisteva.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Come previde Pasolini, lo scrittore è diventato oggi una figura del tutto trascurabile, una sorta d’intrattenitore di una borghesia sazia e piena di cattiva coscienza sepolta. Ma le cose stanno cambiando a furia di lacrime e sangue. Viviamo un tempo troppo drammatico e impegnativo, con sfide epocali a ogni livello, perché gli scrittori non tornino ad assumere un ruolo di critica del potere, denuncia delle disfunzionalità e creazione di nuovi linguaggi – nuovi linguaggi che poi daranno vita a una nuova cultura e quindi a una nuova politica. Nella misura in cui ciò non è accaduto e non sta accadendo, assistiamo al degrado cognitivo di una società allo sbando, prona agli imperativi voraci, ottusi e autodistruttivi del mercato globale. Ma, ripeto, non durerà ancora molto.

 

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