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Di una bellezza leggera


I miei hanno provato in tutti modi, ma alla fine ho deciso io. La scuola m’era sempre venuta stretta, come un vestito che ti trattiene nei movimenti e li lega, e frena ogni libertà senza neppure coprirti in maniera confortevole. Certe volte hai la sensazione che ti venga a mancare l’aria, e arranchi nel vestito, e provi e riprovi ad allargare il colletto, soltanto dopo ti accorgi di non averlo, di non averlo mai avuto, forse, e il panico ti prende, perché non riesci a capire cosa stia a stringerti forte il collo. Credo sia il disagio, una presa invisibile che non ha colore né profumo, ma soffoca. Il disagio di una vita non tua che si ostinano a farti calzare.
Non appena ho potuto me ne sono uscito fuori.
Ho fatto un po’ di lavoretti in giro per la città, sono stato a zonzo, uno sbandato per molti, uno dei tanti in città. Faccendiere oggi, meccanico altre volte, perfino panettiere per qualche notte, ma gli orari, quelli lì, non riuscivo a mandarli giù, sebbene il gusto del pane appena sfornato sia una delle cose per cui vale la pena vivere in questa fogna.
Poi, ho camminato, e ho camminato parecchio per le strade di questa città, col pallino della lettura. Questo sì, m’è rimasto degli anni di scuola, tanto che mia madre me lo rimprovera ancora oggi. Su quei libri, sconci mi diceva, aveva scorto un po’ di Bukowski tra le mie carte, ne hai perduto di tempo, quando avresti potuto metterti davanti dei buoni manuali di legge e diventare migliore. Migliore forse di quello che sono, differente, ma non ho controprova, né mai ne avrà mia madre. Deve prendermi per quel che sono, e ogni santa domenica lo fa. Il pranzo concessoci dal buon dio è qualcosa cui non si può sfuggire, la scuola magari sì, ma la domenica, la domenica è sacra. E lì con mio padre a scherzare, con la malinconia nello sguardo, a ricordare di quello che ero, ragazzetto irrequieto, sgusciante per i vicoli malfamati, per i quartieri che pochi osavano sfiorare, ed io invece lì, dentro.
Conoscitore e conosciuto.
Alla ricerca di un qualcosa che allora non sapevo mi sarebbe sfuggito, comunque.
Sempre.
Erano anni che pesavano poco sulle gambe di noi ragazzi. Si ballava nelle festicciole di quartiere, si avevano storie, molte altre si cancellavano in fretta come l’impronta delle labbra fissata per amore sul vetro dell’auto che ci aveva visti entrare vergini e uscire uomini, come se una scopata in più potesse realmente segnare il passaggio.
Mi chiamavano il romantico fedele, e non m’incazzavo. Certo, che storia, davvero ridicola a pensarci. Non perché mi fossilizzavo con le ragazzine, affatto, anzi, la mia stazza notevole le attirava come fossero mosche e loro lì, a piegarsi dalle risate per le mie sciocche battute, qualcuna si piegava perfino per altro, ed erano soddisfazioni. No, non ero fedele nel senso che potreste intendere, ma lo ero verso qualcuno, una donna, che ero certo non avrei mai raggiunto. C’era un velo di tristezza nei miei occhi, dicevano gli amici, ogni qualvolta parlavo di lei, come se sapessi, dico adesso.
La sua bellezza era folgorante, rimanevo pomeriggi interi, quelli in cui il temporale costringeva a startene chiuso in tana, perché in giro poco c’era da far danno, ecco, quelle giornate mi legavano a lei, e mentre ne scorgevo ogni dettaglio nella figura slanciata che ricavavo da ogni rivista possibile, passata di mano in mano, raccattata talvolta dalla spazzatura, ecco, in quei momenti la sua voce mi rendeva libero, come mai riuscivo a sentirmi, anche in giro per la strada. Dicevano che era la nuova Voce, la migliore del decennio, da decenni a questa parte. Non saprei confermarvelo, ma a me dava una sensazione di leggera bellezza che non sono riuscito ad avvertire mai più.
In nessun altra.
E dunque mi prendevano in giro perché le restavo fedele, aldilà d’ogni scappatella necessaria.
Compravo tutti gli Lp, e nel periodo in cui mio padre provò a tirarmi fuori dall’abisso li riversavo in cassette perché la sua voce non mi lasciasse durante i lunghi viaggi di lavoro. Io e papà giravamo tutto lo stato e oltre. Talvolta rimanevamo fuori settimane, ed io lì ad ascoltarla, nelle pensioncine a buon mercato che potevamo permetterci, col mio mangianastri, anche quando c’erano ingombranti pacchi da scaricare. E mio padre a sorridere, ti fotterai gli occhi figliolo mio a furia di seghe, sghignazzava.
Il mondo che m’ero creato attorno crollò del tutto quando ammazzarono il mio migliore amico e lo fecero davanti ai miei occhi.
E non è stato facile.
Alzarti al mattino, dico e saperlo, averne certezza. Che non c’è, non c’è più e mai ritornerà. E i ricordi che tieni dentro, li vorresti afferrare, nascondere in qualche cassaforte inespugnabile, nell’angoscia che i giorni o altre questioni possano portarli via, e lui con loro. E senti nelle orecchie le risate frivole, idiote, ch’eravamo soliti farci davanti a racconti di Sammy che ne combinava sempre delle belle, cazzate, dico, e noi a sfotterlo per quella sua incapacità di tenersi fuori dai casini. Ecco, roba di questo genere. Arrivi perfino a ricordarti delle magliette stravaganti che indossava per le infinite partite di Basket, giù al parco. Iniziavano al pomeriggio e si spegnavano a sera inoltrata quando i nostri piedi fumavano più delle canne che eravamo capaci di farci in una settimana.
Dal pomeriggio in cui quei cani rabbiosi spararono a bruciapelo sul petto ancora imberbe di un ragazzo poco più che adolescente, scegliendo di risparmiarne un altro, beh, ho cambiato modo di vivere. Ho incontrato Susan, frequentando un teatro in cui si esibivano dei gruppi locali di Gospel, lei faceva parte d’uno di questi. E cantava, la intravidi, e per un attimo il bagliore della sua voce m’ha fatto incontrare la mia Whitney, reale. Così ho cambiato strada, come mia madre, quasi facesse di continuo prediche mi continua a ripetere da anni, prima della preghiera della domenica.
Ho virato, dico invece io, senza rimpiangere nulla del passato.
L’ho fatto. Forse perché ho avuto paura di perdere tutto, me stesso e i ricordi che di lui conservo ancora.
Poi, negli anni che seguirono, il destino, sorridendo come una iena, ne sono certo, s’è divertito a giocare con la mia vita e m’ha messo per le stesse strade d’un tempo. Dall’altra parte della barricata. M’ha infilato un vestito stretto, uno dei peggiori, forse, un’uniforme che segna il passo dovunque tu vada.
Dunque ritorno da qualche anno sulle strade che hanno nascosto i miei salti, le corse a perdere, a perdermi, le ginocchia piegate dal troppo bere, o dal fumo che annebbiava la vista e mutava la voce. Col sapore sulle labbra di caffè bruciati, e il puzzo nelle narici dell’acqua stagnante di periferia.
Eppure dopo tutto questo tempo non ho smesso d’ascoltarla. Le sono restato, in quelche modo fedele, fedele come una volta. Certo adesso non la inseguo più per riviste, o Tv, mia moglie mi darebbe del matto, più di quanto pensa che io non sia. No, e non mi sembra neppure il caso di ritrovarmela davanti agli occhi devastata per come ha scelto di diventare, di essere. Lei, in barba alla bellezza che dio le ha concesso, se l’è fottuta, con tutto il resto. Ho sbirciato in Tv alcune ultime esibizioni, e lì ho visto nei suoi occhi, dentro l’anima fragile di quella donna, come ciascuno di noi riesca a calpestare, a calpestarsi senza alcun ritegno, né rispetto. Con quella voce avrebbe potuto tenere il mondo ai suoi piedi, c’era bellezza in ogni gesto, in ogni parola che accompagnava il canto, c’era una bellezza leggera che mi portava ad essere libero oltre il martirio della droga che m’ero scelto, della miseria in cui m’ero andato ad infilare, dello squallore che abbracciava la mia pelle. Lei era lì, accanto a me e mi sosteneva, in qualche modo, ne sono sicuro, m’ha tenuto in piedi, e senza che io me ne sia accorto del tutto m’ha sottratto al baratro, magari indirizzando il proiettile che ha ucciso Joy verso di lui, e deviandone la traiettoria che avrebbe potuto finirmi, bruciarmi del tutto. Non so che dire, ma a scorgerla così, piegata dalla solitudine del dolore, incapace di trovare rivalsa in ciò che c’è di bello mi lascia sconfitto, come se adesso fossi io accanto a lei, ma impotente. Perché nella mia quotidiana esistenza non c’è nulla di bello e leggero che possa sollevare i suoi piedi da terra almeno per un po’, quel poco che basta a farla riprendere da quel dolore straziante. Invece no, sono semplicemente un poliziotto di quartiere, chiamato a raccattare puttane violate oltre misura, marmocchi sorpresi a fotter merende agli ipermarket. Un poliziotto sempre pronto a raccogliere la miseria di cadaveri che hanno pensato bene di fermare la loro immobile corsa.
Ecco, dalla centrale ci chiamano, c’è uno strano silenzio in questo pomeriggio.
Un vuoto opprimente.
E un cadavere da verificare, come se i morti abbiano bisogno di verifica. In qualche modo era lì che dovevano spegnersi. E questo poi se l’è scelto bene il luogo. Un Grand Hotel, qui a Los Angeles, la città degli angeli che s’infettano troppo in fretta per poterli scorgere a volare in cielo. Ecco, un altro cadavere da verificare, dunque, uno che bazzica bordi alti. L’hanno trovata morta, dicono alla radio, nella vasca da bagno, idromassaggio di certo. Susan mi stressa da anni affinché gliene compri una, ma con due marmocchietti da mandare a scuola non è così semplice. Conto di farlo però, di concederle questo lusso per il prossimo compleanno. Di concederlo a me stesso. Per adesso mi tocca andare a rimestare nel fango di questa fogna, che sebbene se ne stia a morire in camere d’alta classe sempre alla melma comune appartiene.
Chissà chi ha deciso di spegnersi stamani?

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