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Ezio Sinigaglia

Ezio Sinigaglia è l’ospite di “Cinque domande, uno stile”. Ha pubblicato i romanzi “Il Pantarèi (1985, SPS, riedito nel 2019, TerraRossa), “Eclissi”, (2016, Nutrimenti), “L’imitazion del vero” (2020,  TerraRossa) e il recente “Fifty-fifty” (2022, TerraRossa).

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Le idee buone sono più eccitanti di ettolitri di caffè e rendono impossibile il sonno. Questo per me vale non solo per l’Idea-scaturigine dalla quale prende vita un romanzo, ma anche per tutte le decine di idee che mi vengono mentre scrivo e che si traducono in invenzioni narrative o linguistiche. Quando scrivo, sono sostanzialmente insonne. Per questo, forse, rimango improduttivo per lunghi periodi.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Incipit ed excipit per me sono vere e proprie fissazioni. Attribuisco cioè ad entrambi la massima importanza. Perciò, mentre trovo del tutto logico e a volte quasi inevitabile che l’inizio di un mio romanzo mi colga di sorpresa (un attimo fa non c’era, adesso c’è), escludo che la stessa cosa mi possa capitare con il finale: lo preparo sempre con largo anticipo.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a sé stesso “devo scrivere?”
È successo mentre scrivevo il mio romanzo d’esordio, Il pantarèi. Fino ad allora mi dicevo caparbiamente “voglio scrivere”, benché gli esiti fossero davvero modesti. Dopo le prime trenta-quaranta pagine del romanzo, constatando che tutto filava a meraviglia (come “era follia sperar”), mi sono detto: “Accidenti, devo scrivere per forza!” Una bella croce.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
I romanzi che ho scritto sono, dal punto di vista stilistico (e, direi, anche da quello strutturale), diversissimi l’uno dall’altro. Perciò sarei portato a rispondere con un “no” deciso a questa domanda. Certo permane, al di sotto della varietà e volubilità degli stili, una riconoscibilità di fondo. Ma quest’ultima, per uno scrittore che voglia dirsi tale, non è un vincolo: è un traguardo.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Ai miei tempi si diceva “il privato è politico”, per affermare che ha un significato politico anche ciò che crediamo non ne abbia alcuno. Figuriamoci dunque se la letteratura può non essere politica! Del resto una civiltà consiste, più che in ogni altra cosa, nell’arte che è (o che è stata) capace di esprimere. E la letteratura è una delle arti maggiori. Sulla base delle guerre combattute, delle carneficine perpetrate, della bassezza etica e intellettuale di certi imperatori, possiamo dubitare del grado di civiltà raggiunto dall’antica Roma. Ma quando leggiamo Orazio e Virgilio, Ovidio e Catullo, Tacito e Petronio, ogni dubbio svanisce.

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