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Franco Faggiani

Per la rubrica “Cinque domande, uno stile” oggi presentiamo Franco Faggiani, camminatore. Di strade e parole. Giornalista e scrittore, autore che spazia dalla saggistica alla narrativa. Creatore della serie di romanzi aventi come protagonista il comandante Colleoni (Idea Montagna Edizioni), di reportage che spaziano dall’enogastronomia alla vita di montagna e autore del fortunato “La manutenzione dei sensi” (2018, Fazi, vincitore del Premio Parco Majella, del Premio Letterario Città delle Fiaccole e del Premio Madesimo).

 

 

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Le storie si possono trovare dappertutto, anche grattando il fondo dei cassetti. Lo dice lo scrittore giapponese Haruki Murakami e io, da sempre, concordo. Tutti i miei libri sono nati da frammenti di storie secondarie, da incontri apparentemente casuali. Le idee nascono insomma in continuazione; alcune si trasformano in progetti, altre si perdono in giro, altre ne arrivano. L’idea la elaboro in testa, fin nel dettaglio. Anzi, ne elaboro anche due o tre alla volta e questo richiede tempo e inevitabilmente mi confonde. Alla fine quella che mi ha appassionato di più in fase di assemblaggio mentale diventa la storia che percorre la sua strada fino alla fine. Strada lungo la quale si modifica, si snellisce, prende forma vera. Nello scrivere mi sento come un artigiano a bottega che, con pochi attrezzi, cerca di far bene il suo lavoro, che deve essere accurato, semplice e al tempo stesso utile.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Necessaria. Anche se le conclusioni sono sempre difficili, quindi quella consapevolezza è fragile.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”.

No, fortunatamente. Ho iniziato a fare il giornalista a tempo pieno a vent’anni, occupandomi di tutto un po’, come facevamo in molti all’inizio degli anni ’70; non c’erano specializzazioni, mezzi di comunicazione rapidi o comodi, bisognava arrangiarsi, scarpinare, scavare. Allora c’erano i reportage e si vede che io ero predisposto, perché mi mandavano quasi sempre a cercare di scoprire cosa c’era dietro gli avvenimenti, i retroscena; volevano da me non cronache ma storie, appunto. Quindi passare alla narrativa è stato un fatto naturale, che non ha richiesto manutenzioni o modifiche particolari al mio modo di scrivere precedente.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Lo stile potrebbe essere anche un rifugio. Scrivo in questo modo, mi piace, funziona, dà buoni riscontri, perché cambiare? Può però essere un rischio, perché mette addosso una specie di etichetta che poi non è facile togliersi di dosso. Dal 2013 al 2015 ho scritto tre romanzi giallo-avventurosi – anzi una trilogia, con lo stesso personaggio che si chiama Bartolomeo Colleoni, come il condottiero bergamasco – e tutti mi dicevano “Ah sì tu sei quello del Colleoni!”. Con «La manutenzione dei sensi», pubblicato da Fazi a febbraio 2018, ho cercato di dare una svolta anche allo stile, e con il nuovo romanzo, in uscita a primavera sempre con Fazi, l’ho cambiato un’altra volta, con una storia ambientata nella prima metà del ‘900 in un paese straniero, quindi anche il modo di pensare e il linguaggio si sono dovuti adeguare. Cambiare stile è diventata una sfida, anche se rischiosa.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Non credo che la letteratura incida nella società, perché la percentuale dei lettori è ancora troppo bassa e perché le persone hanno altri mezzi di informazione/comunicazione/scoperta. In passato è andata decisamente meglio, certi capolavori, i classici, per intenderci, hanno aperto menti e allargato orizzonti. Da qualche tempo testi così illuminanti, da lasciare una traccia profonda, non ne vedo. La letteratura oggi, tranne qualche eccezione che sicuramente ci sarà, almeno me lo auguro, viene mescolata con la narrativa, meno impegnata a incidere e meno impegnativa da affrontare. Nel mio piccolo scrivere storie positive che facciano star bene le persone, che le facciano “viaggiare” in posti e tra gente che non conoscono, che suscitino attimi di riflessione, lo considero comunque un buon traguardo.

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