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La vita nascosta di Donnarumma

“Avanscoperta” ospita oggi Raffaele Donnarumma che per “Il ramo e la foglia edizioni” [18,00 €, pp. 328] ha dato alle stampe da poco il romanzo “La vita nascosta”, di seguito le considerazioni dell’autore sulla scrittura e sul romanzo.

È difficile dire perché, a un certo punto, uno proprio non riesca più a tenersi a freno e si metta a scrivere un romanzo. Ci deve essere un processo di lunga decantazione, o di lungo accumulo; poi la materia non può più essere contenuta nelle pareti della scatola cranica, esce, come in un’emorragia, e dilaga nella scrittura. Certo, il calcolo della struttura interviene a darle una forma: questo capitolo lo costruisco così, questo lo faccio finire in questo modo, ecco il finale. Ma è anche vero che bisogna lasciare che la storia, il pensiero, lo stile parlino e cantino da sé. Bisogna comportarsi come quei musicisti o quegli attori che, dopo aver tanto studiato un pezzo, poi lasciano uno spazio all’improvvisazione e si trovano a fare cose che non avrebbero previsto.
La vita nascosta racconta la crisi di un personaggio che mi somiglia (condivide con me l’iniziale del nome, la professione, vari tratti biografici e caratteriali), ma che non sono io. Liberiamoci subito di un equivoco: è del tutto irrilevante quanto ci sia di vero e di falso, l’autofinzione (se vogliamo chiamarla così) sarebbe una fatuità se il problema fosse mentire, o peggio giocare a mentire. L’autofinzione è questione di verità e di voce. Parlo di quella verità che scopriamo nei sogni quando, rimpastando i resti diurni, ci fanno fare cose che non faremmo da svegli; e di voce, perché, appunto come un attore che recita, prestare il proprio corpo a un personaggio immaginario vuol dire dargli quella consistenza, quello spessore, diciamo pure quel patetismo che altrimenti, viene il sospetto, non avrebbe. Uno si trova così a mettere sul palcoscenico i propri fantasmi, e cercare in essi i fantasmi di tutti – i fantasmi che potrebbero essere i più tipici delle nostre vite, oggi: la difficoltà dei rapporti amorosi, il sesso, il corpo, le dipendenze, la depressione, il virtuale, l’inseguimento e la fuga, alla fine, dagli altri e da noi stessi.
Un romanzo, però, non è una lezione o un temino. Secondo me, riesce appunto se si sente la voce di qualcuno, e questo qualcuno cerca di darsi un senso e degli scopi o anche – e non è meno importante –resiste a quella che teme essere la verità. Mi sembra disastroso che i romanzi si mettano a fare concorrenza alla storia o alla sociologia: questo è l’equivoco in cui cadono troppi scrittori di oggi, senza avere (ed è soprattutto questo il guaio) le spalle abbastanza robuste per un compito del genere. L’attesa e l’ambizione del Grande Romanzo Italiano sono una vera iattura. Tanto vale aspettare l’uomo della provvidenza. Solo pochissimi scrittori, per altro tra loro molto diversi (che so? Siti, o Moresco) ne sono all’altezza. Il terreno proprio del romanzo è sì la storia, ma senza l’allucinazione di un protagonismo ridicolo e la fissa dei grandi eventi e delle svolte epocali; è sì la sociologia, o meglio ancora, l’antropologia del presente, ma senza l’arroganza di parlare per tutti. La vita nascosta vorrebbe essere questo: il racconto di un individuo un po’ fuori posto, curioso e spaventato, acuto ma a tratti cieco, non privo di una sua saggezza e insieme moralmente compromesso, che attraversa le esperienze di tanti, ma a modo suo.

Un commento

  1. Ho apprezzato molto questa presentazione di Donnarumma sul suo libro. Concordo con le sue riflessioni sulla scrittura, sulle sue esigenze di ‘esplosione’ e al tempo stesso di dovere verso il lettore. Sono curiosa di seguire la storia del protagonista ‘curioso e spaventato, acuto ma a tratti cieco’, che vive a suo modo le esperienze di tanti.
    Ho segnato “La vita nascosta” tra i miei prossimi acquisti.
    Grazie per l’opportunità che mi avete fornito
    Giovanna

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