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Lettera bianca, caratteri neri e un sole cocente


Una signora dal passo spedito col telefonino incollato all’orecchio sbraita di qualche problema, mi si fa accanto, scruta con fare indagatorio, poi sculettando tira avanti mentre l’eco della sua voce stridula stenta a perdersi nel silenzio di un lungomare deserto. La brezza soffia lieve e mi accarezza il volto, come a voler sussurrare qualcosa. Eppure non ho voglia di prestare attenzione alle cose, alle parole, ai sussurri. Nemmeno mi curo più di tanto dei miei stessi pensieri, forse perché non ne ho di rilevanti, forse perché fanno troppo rumore nella mia mente, forse perché mi portano lontano dai miei passi, o forse perché non sono in grado di produrne.
Ho deciso di non averne per oggi. Dunque scansandoli come mosche fastidiose me ne rimango disteso lungo il muretto in pietra, lasciandomi cullare dalla voce leggera della risacca. Talvolta il ritmo delle onde viene interrotto da un parlottio fitto. E sono vecchi col berrettino bianco, con i pantaloncini tirati sulle ginocchia, e la polo mezzemaniche.
Rigorosamente bianca.
E parlano dei neri, quelli che sono tutti uguali, quelli che da Lampedusa sono stati portati fino a lì, scaricati perfino, come pacchi pronta consegna. C’è agitazione da queste parti, ci si scambiano sguardi in cagnesco, si dubita, si ha paura. E si prospettano scenari apocalittici mentre il vento pare alzarsi d’improvviso ma non è che un rapido volo di zanzare, il soffio dei tubolari di biciclette che sfrecciano senza lasciar traccia. Il mare è placido e si crogiola al sole. Non è bianco sebbene la luce intensa ne lasci sfumature ad un passo dall’orizzonte, sebbene le onde con fare sommesso giocando con la sabbia della battigia disegnino increspature.
Bianche.
Ma né il mare, né le onde hanno paura dei profughi, tutt’al più ne restituiscono un po’ una tantum.
I vecchi rigorosamente bianchi con le loro quotidiane apocalissi si allontanano, mentre lentamente il lungomare si popola di persone in tenuta estiva. Chi trattiene il suo cucciolo al guinzaglio, un delizioso cagnolino che è stato battezzato Agata, e scodinzola come un ossesso raccogliendo pezzetti di rami portati dal mare sulla spiaggia. Rami rancidi, penetrati dal sale fin dentro le ossa, anneriti dal sole, e senza tracce di bianco. C’è chi tiene al guinzaglio il suo uomo, stretto alle mani, mentre lancia occhiate a destra e a manca in cerca della prima scollatura di stagione. E poi, e poi c’è chi corre. Giocando a rincorrersi, inseguendo un pallone scivolato nell’acqua, raccogliendo la figlioletta caduta con la faccia sulla sabbia, e chi corre perché in ritardo bestemmiando in maremmano stretto, e chi s’allarga la cinghia dei pantaloni chè ha mangiato tanto e adesso ha davanti un paio di chilometri da camminare per sentirsi meglio. E c’è il bimbetto che scalpita e vuole il suo cono gelato, e c’è il gusto pinguino che risalta al bancone e una nocciola fatta sulla luna, e c’è il gusto assente sulle mie labbra del gelato di casa. E non c’è più silenzio attorno, a coprire il tedio dei miei pensieri, così con la cicca fumante sulle labbra che fa tanto scrittore squattrinato, o precario tra precari, raccolgo le mie cose e faccio per andare e mi imbatto in una ragazza che sorridente s’avvicina ad un giovane seduto come me sul ciglio del muretto, e rubo le loro parole.
“Che fai?”
“Ti amo.”
Capisco che s’è fatto tardi, e il sole m’ha preso la testa, e lascio tutto lì oltre l’orizzonte, nascosto dal profilo imponente dell’isola d’Elba.

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