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Marta Cai

 

“Cinque domande, uno stile” ospita Marta Cai, scrittrice. Debutta con la raccolta “Enti di ragioni” (2019, Sui Generis). L’ultimo romanzo è lo splendido “Centomilioni” – edito da Einaudi e candidato all’edizione 2023 del premio Campiello – di cui potrete leggere qui.

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Una sensazione, appunto, sotto lo sterno che definirei di apertura, pronta a dare e a ricevere, un innamoramento. L’idea si forma successivamente, è una ricerca del nucleo che ha illuminato quell’oggetto, quella frase, quella persona, quel gesto o quella lettura che l’hanno scatenato. Se non c’è questo sostegno, l’idea – che può essere anche semplicissima, giocosa, non necessariamente raffinata – si esaurisce presto, non genera la forma e la struttura, non trova i personaggi per raccontarsi, le azioni che necessariamente porta con sé, la sua “dimostrazione”.

 

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
La parola quando è appena scritta chiede se è giusto che stia lì insieme alle altre. Nessuna parola è solitaria e nemmeno di per sé giusta o definitiva: si situa nelle relazioni che intrattiene con le altre, con la sagoma che la unisce simbolicamente alla sagoma di ciò che nomina e alla storia che sta raccontando, è una borsa di qualità secondarie, riconoscibili da chiunque, evidenti secondo il caso e le esigenze di ciascuno. Se la si considera così, come “aperta”, la sua posizione all’interno di una frase o di un racconto è stabile, ma non le sue emanazioni.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
C’è stato più di un momento in cui mi sono detta: “Non devo scrivere”. E invece ci ricasco sempre, perché scrivere mi rende, banalmente, felice.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Se lo stile è veramente proprio, non può diventare un vincolo. Lo stile è il ritmo dei pensieri, che si controlla, di cui si imparano le potenzialità con l’esperienza, complicandolo o semplificandolo secondo le necessità, ma non è una materia completamente malleabile, è un apparato muscolare, consente un certo numero di movimenti e si può allenare per determinate finalità, ma nessuna ballerina danzerà mai come un’altra, anche se ripetono le medesime, rigidissime sequenze e gli esercizi alla sbarra sono stati gli stessi.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Se scrivere è un gesto, e per me lo è, essendo creativo non può che essere politico: perché diventa visibile, sposta comunque l’aria intorno alle persone, generando reazioni e altri gesti, varietà, politicità intesa come contrario di monoliticità. Ho in orrore l’immobilità, la morte dell’umano, i tentativi di renderlo un astratto agente di moralità, cattivo, noioso, sempre uguale a se stesso, prevedibile.

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