Massimiliano Città Posts

Ho trascorso quarant’anni della mia vita in prigione. E per questo credo di non essere in grado di definire il tempo. Fuori, fuori da qui quaranta lunghi anni costituiscono un peso consistente sulle spalle di chiunque. Qui dentro invece non saprei dire. In questa misera cella non c’è alternanza di stagioni, né freddo più di quanto riesca a sopportare il caldo. Forse eccessiva è l’umidità, ma ho dimenticato bene cosa possa essere là fuori, pertanto non ho termini di paragone. Conosco poche parole. E poche sono le cose che mi girano intorno. Conosco la miseria, e forse ricordo l’odore del sangue. Conosco lo squittio dei topi, e i segni del loro passaggio. Conosco poche parole. E poche sono le cose che mi girano intorno. Non conosco il sapore dei frutti di stagione, né i colori dell’alba e il tramonto che ho letto qui al buio. Non conosco musica che le mie orecchie possano immaginare. E le voci del mondo le sento tutte dentro la mia.
Qualcuno si lamenta del puzzo di piscio, e chiama putrido questo luogo. Accade nelle prime notti, poi ci si abitua. Io non saprei definirlo in nessun modo. E’ parte di me forse, da tantissimo tempo certo. Tutto il tempo che ricordo. Ogni cosa che ho fatto l’ho fatta tra queste mura larghe e senza vento. Ogni cosa che mi manca sta oltre quella grata.
Scorgo parte del paesino che ci accoglie.
Uno scorcio del campanile, che si sveglia anche di notte a ricordarci l’ora, come se qui dentro un’ora valga più d’un’altra. E vedo pure qualche casa prima della piazza, o prima del posto che immagino possa essere la piazza, il centro di questa cittadina.Da quarant’anni rinchiuso dentro e non ricordo più nemmeno perché. Eppure una ragione ci sarà, lo sento dire in giro, avranno pur ragione.
Loro.
Credo che riceviate decine e decine di lettere del genere al giorno. Lettere in cui il mittente afferma d’essere un talento non ancora scovato che…
Lascia un CommentoIl viso scolpito dal tempo con cicatrici e rughe testimoni di estenuanti cammini, di ritorni e fughe. Gli occhi scavati, infossati nel blu di un…
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Sono onorato di essere qui con voi oggi alle vostre lauree in una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. Anzi, per dire la verità, questa è la cosa più vicina a una laurea che mi sia mai capitata. Oggi voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie.
La prima storia è sull’unire i puntini.
Ho lasciato il Reed College dopo il primo semestre, ma poi ho continuato a frequentare in maniera ufficiosa per altri 18 mesi circa prima di lasciare veramente. Allora, perché ho mollato?
E’ cominciato tutto prima che nascessi. Mia madre biologica era una giovane studentessa di college non sposata, e decise di lasciarmi in adozione. Riteneva con determinazione che avrei dovuto essere adottato da laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare fin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però quando arrivai io loro decisero all’ultimo minuto che avrebbero voluto adottare una bambina. Così quelli che poi sono diventati i miei genitori adottivi e che erano in lista d’attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: “C’è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete voi?” Loro risposero: “Certamente”. Più tardi mia madre biologica scoprì che mia madre non si era mai laureata al college e che mio padre non aveva neanche finito il liceo. Rifiutò di firmare le ultime carte per l’adozione. Poi accetto di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college.
1 CommentoCi sono silenzi che sai ben dire, da coltivare come fragili roseti, e sfuriate di vento che tutto spazzano via, e strappano al tempo i…
Lascia un CommentoUn letto disfatto, stanco di solitudine. E profumo di caffè. Un pianoforte elettrico muto, e libri a prender polvere, divorati troppo in fretta, nella…
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Padre mio, questi chiodi fanno male. Vivi nella pelle il sangue li colora, ma non durerà. Sento freddo e il ferro penetra e spezza le ossa, e le gambe non sanno più sostenere i passi. Il sole si spegne muto oltre l’orizzonte e disegna ombre lunghe sul selciato. Il vento accarezza gli occhi di chi mi guarda e piega loro le ginocchia. Un tappeto d’anime di fuochi fatui.
Si stendono sulla terra arida mentre i miei sospiri tremano.
E tremano loro con me.
Nelle parole, nelle dita scarne che affondano sulla sabbia, e tremano nelle preghiere che non sanno dire. Tremano tra le lacrime, con la paura che qualcuno possa scorgerle scivolare sul viso pronte a ridurle in catene. Sono esili imbarcazioni sperdute nel mare, vittime di una rivoluzione che mai potrà avvenire, mentre il vento soffia forte e le allontana dalla riva. Tendono le loro braccia verso un rifugio sicuro che hanno intravisto nel sogno, e sanno d’aver per sempre perduto in vita.
Si scrive per guarire se stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore. Si scrive per dialogare anche con un lettore sconosciuto. Ritengo che nessuno senza…
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