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Massimiliano Città Posts

Mi prendeva le mani


Mi prendeva le mani e aveva da dire.
Sorrideva sempre ma sapeva parlare.
Mi prendeva le mani e stringeva forte, come se da un momento all’altro il vento potesse bussare alle porte trascinandomi via.
Mi guardava negli occhi ché niente e nessuno fermasse il silenzio.
Mi prendeva le mani e sapeva parlare.
Raccontava del viaggio che fece bambina. Non aveva che spiccioli d’anni sulle sue esili spalle, e strada da fare sotto i piccoli piedi.
Raccontava del viaggio e degli occhi che diedero luce al suo sguardo e sorriso al mio giorno.
Mi prendeva le mani e sapeva d’amore.
Mi reggeva le gambe nelle sere d’estate in cui il caldo opprimente ti piega le forze e ti lascia sconfitto, se non hai che undici anni e un dolore da dire. Mi leggeva canzoni e masticava poesie di cantanti errabondi e di strane follie. Raccoglieva coralli nelle notti d’inverno ad intrecciare collane che vestissero meglio ed aveva nascosto in un mesto cassetto qualche dolce da darmi prima che l’ora giungesse a dormire nel letto.

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Io non sono un pesce


Non parlo bene, non mangio troppo.
Talvolta me ne resto muto a guardare oltre l’orizzonte.
Non mangio troppo e certe volte non c’è di che mangiare intorno. Proviamo a rovistare un po’ ma ai margini della città il vento è passato da un pezzo, e nulla ha lasciato.
Così ci muoviamo e andiamo verso altre strade.
E usciamo in mare.
Altri seguono i nostri passi. E non fanno rumore. Altri non hanno di che mangiare e si muovono. Senza far rumore, leggeri sull’acqua, come quel tizio che mi raccontano è stato capace di camminarci su. Sopra l’acqua dico, proprio come fanno gli uccelli, eppure senza volare, perché uccello non era.
Dicono fosse un pescatore.
Come me, come noi.
Non parlo bene eppure serve parlare. Per farsi capire, per dire al mondo che in qualche modo esistiamo, e il respiro che affolla la notte e la riempie di domande non deve passare in silenzio. Ma qui, in un equilibrio che non vuole saperne di placarsi, restiamo in ascolto del mare.
Non ho molta vita sulle spalle, né grandi peccati da farmi perdonare, per questo la sua voce non riconosco ancora. Il suono delle onde m’inganna, e spesso mi butta giù. L’orizzonte sempre uguale, e sembra d’essere perduti in un colore che riempie gli occhi come a soffocarli. E l’aria pregna di sale, e la brezza che non è mai gentile. Gentile con quelli come noi, che poco hanno da mangiare ed escono per altre strade. Ogni mattino. Prima che lo stesso mattino sappia d’essere vivo il nostro ansimare scroscia tra le onde e lì si perde, come se non fosse mai esistito.

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E il perché non so


Sento ancora l’eco del mio nome. Viene fuori dalle labbra di mamma in questa notte senza vento. E viaggia per il campo. Come un fiato tirato via, lontano. Ma se rimanete un po’ zitti riuscite a sentirlo anche voi. Mamma che dice Dragos, anche se non c’è la dolcezza di certi giorni in quella parola. Avverto un grido, come se la sua voce è spezzata dal pianto.
E il perché non so.
Immagino il mio nome sputato via dalla sua bocca passare attraverso l’aria fino a giungere a me, correndo veloce come spesso mi accade di fare. Lo vedo cavalcare, senza sosta, sempre più vicino, fin dentro le mie orecchie. E in quell’attimo, quando m’entra dentro, capisco che non è la voce della mamma.
E il perché non so.
Ma il mio nome, chiunque stia a nominarlo, sta correndo, lo vedo bene.
Mia sorella rimane indietro come spesso accade quando proviamo a gareggiare.
Li tengo tutti dietro, è la solita storia. Per le vie della città, nelle giornate di maggior confusione, quando in marcia, come commilitoni di una guerra perduta in partenza, andiamo in giro. Con le nostre borsettine sfondate, e le divise imbrattate dalla povertà, intrise di puzzo e sudore. Odori che la gente del posto evita di voler conoscere. Noi partiamo al mattino.

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