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Aldo Simeone

Aldo Simeone, pisano. Lavora nell’editoria, si occupa di testi di carattere storico e musicale presso l’editore Loescher. Il romanzo “Per chi è la notte” (2019, Fazi editore) segna il suo debutto.


Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Prima di averla, l’idea, bisogna cercarla. Non credo all’ispirazione romantica come invasamento. Le idee non piovono dal cielo per forza di gravità; bisogna inseguirle. Spesso bisogna inventarle. Finora non mi è mai capitato d’imbattermi in un’idea e scoprire che vale ventimila copie. Magari a qualcuno capita, ma dubito che quel qualcuno sia uno scrittore: è un borseggiatore. Perciò, rispondo alla domanda: la sensazione che si prova a inseguire le idee è la fatica. Una fatica corroborante, però. Del resto sono moltissime le persone che fanno jogging alle ore più assurde del giorno.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Nella realtà, non ci sono storie. C’è la Storia, che non finisce. Come finisce la parabola napoleonica? Con la morte di Napoleone a Sant’Elena? O con la sconfitta a Waterloo? O magari con i cento giorni? O ancora con Napoleone III? È chi s’è preso la briga di raccontarla che sceglie dove mettere la parola «fine». Ed è sempre una scelta significante, che dà un senso al racconto. Ecco perché la vita non ha senso mentre i racconti ce l’hanno sempre. È per dare un senso alla vita che l’uomo, dalle origini del tempo, racconta storie. Cosa sono le religioni se non narrazioni?

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Ci ho pensato, ci penso, ma no: non mi viene in mente. Quindi, ho due ipotesi: o quel momento è talmente remoto nel tempo che l’ho dimenticato (e può essere, dato che la mia memoria è un colabrodo), o non è mai esistito (e magari si verificherà). Nel mentre, scrivo perché non saprei non farlo. Ma penso che scrivere non sia «fare letteratura» (detesto questa parola); piuttosto è «raccontare storie». E tutti lo fanno, anche se poi non le scrivono.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Sì, ma quando accade, vuol dire che non si sta più raccontando storie: si sta facendo letteratura, magari per vincere il Premio Strega o il Nobel. Cosa rispettabilissima, per carità, ma dal mio punto di vista poco utile agli altri e molto a se stessi. Quanti autori si fanno il verso da soli? Esiste un verbo per ciascuno di loro: deriva dal loro cognome con l’aggiunta del suffisso -eggiare. Montale montaleggia, d’Annunzio dannunzieggia, la Ferrante ferranteggia…


In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Nel telefilm L’uomo nell’alto castello, tratto da un romanzo di Philip K. Dick, ci si immagina che la Seconda guerra mondiale sia stata vinta dalla Germania e dal Giappone. L’America del Nord è divisa tra Reich e Impero nipponico. La Resistenza è fiaccata. Risorge negli anni Sessanta quando iniziano a circolare alcuni filmati che mostrano il mondo come lo conosciamo noi: con la sconfitta dei nazi-imperialisti, la diffusione del benessere e delle democrazie, le lotte civili. Sono film proibitissimi: chi li vede, tra cui Hitler in persona, capisce subito che non si tratta di video-montaggi, ma di realtà: una realtà parallela. E inizia l’ossessione. Presto tedeschi e partigiani capiscono anche che solo raccogliendo queste pellicole è possibile trovare la chiave per la vittoria definitiva sui rispettivi avversari. Si tratta di una metafora chiarissima del valore politico dell’invenzione narrativa. Ogni cambiamento è possibile solo se prima qualcuno lo ha immaginato. Pensiamo alla celebre frase I have a dream di Martin Luther King: «sogno» non significa solo «desiderio», ma soprattutto (o meglio, prima di tutto) «visione». Gli individui privi di creatività forse possono cambiare il mondo, ma di certo non lo possono migliorare, perché il progresso è sempre l’invenzione del nuovo: la democrazia, la tolleranza religiosa, l’emancipazione femminile, la lotta non violenta, tutte cose che non esistevano prima e che per molti erano addirittura inimmaginabili. Ma poiché ogni invenzione, per diventare realtà, deve prima svolgersi in narrazione, ecco che la narrativa ha un ruolo fondamentale nel mondo e nella storia. Soprattutto la narrativa d’invenzione.

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