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Andrea Pomella

“Cinque domande, uno stile” ospita lo scrittore e saggista Andrea Pomella. Tra i suoi lavori ricordiamo “10 modi per imparare a essere poveri ma felici” (2012, Laurana) e i romanzi “Anni luce” (2018, ADD Editore), “L’uomo che trema” (2018, Einaudi), “I colpevoli” (2020, Einaudi).

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
L’idea per l’ultimo romanzo che ho scritto ha preso forma durante un viaggio solitario in macchina verso le Marche. È stato come la puntura di un insetto alla quale lì per lì non si fa troppo caso, ma che poi porta a delle conseguenze di lungo corso. Quand’ero più giovane vivevo questo momento con un senso di eccitazione e frenesia, non vedevo l’ora di mettermi al lavoro. Ora so che un’idea per diventare un libro deve superare la prova del tempo. Quella sorta di innamoramento repentino deve dimostrare di poter durare. Quindi lo vivo con più disincanto.


La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
La sequenza con cui si scrivono le varie parti di un racconto non sempre coincide con la progressione dei fatti narrati, spesso capita che il vero finale si riveli in un capitolo o in una frase che avevamo posizionato altrove. Lo stesso vale per l’incipit. Per decidere come si inizia e come si finisce occorre avere prima tutto il materiale a disposizione. Perciò la “parola appena scritta” non può mai portare a una consapevolezza così netta.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Non credo che sia esistito o che possa esistere un momento del genere. Piuttosto lo immagino come qualcosa di simile all’insorgere della sessualità da giovanissimi: qualcosa in noi avviene, si modifica, ma mentre accade non sappiamo come definirlo. Inoltre non so se l’atto dello scrivere debba rispondere a un dovere, in realtà lo vedo più come un piacere. Forse c’è stato un momento nella mia vita in cui scrivere è diventato un gioco talmente divertente da non potergli più resistere. Forse non ho detto “DEVO scrivere”, ma “VOGLIO scrivere”.


Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Più che uno stile preferisco avere una voce. C’è un “modo migliore” – che è il migliore fra tutti i modi possibili – per raccontare una storia. Ed è a quello che tendo, quando scrivo. Lo stile in sé è nemico della storia.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Il romanzo è un dispositivo fatto per interrogare le coscienze, l’anima e la psiche delle persone. Ma la buona letteratura, al contrario della politica, non dà risposte né fornisce soluzioni. La buona letteratura solleva continuamente nuovi interrogativi, alimenta il dubbio. La cattiva invece consola, ha una parola buona per tutti. Proprio come fanno i politici.

 

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