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La strada di McCarthy

– Cormac McCarthy, 2007 – Einaudi – pp. 218 – € 18,00.

«In quei primi anni le strade erano affollate di profughi imbacuccati dalla testa ai piedi. Protetti da maschere e occhialoni, seduti fra gli stracci sul bordo della strada come aviatori in rovina. Carriole piene di cianfrusaglie. Carri e carretti al seguito. Gli occhi spiritati in mezzo al cranio. Gusci di uomini senza fede che avanzavano barcollanti sul selciato come nomadi in una terra febbricitante. La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L’ultimo esemplare di una data cosa si porta con sé la categoria. Spegne la luce e scompare. Guardati intorno. Mai è un sacco di tempo. Ma il bambino la sapeva lunga. E sapeva che mai è l’assenza di qualsiasi tempo.»

Ne “La strada”, McCarthy rappresenta uno scenario post-apocalittico in cui ogni principio di civiltà è venuto meno e l’istinto bestiale che governa la natura la fa da padrone.
Il romanzo narra le vicende di un padre e un figlio in viaggio lungo una strada senza fine, alla ricerca di un luogo sicuro guidati dalla flebile fiamma della speranza che ancora brilla nella disperazione circostante.
Ma il tarlo continuo della soppressione di ogni cosa accompagna i passi del padre, consapevole di non essere eterno e non potere abbandonare la fragilità del figlio a un mondo selvaggio che lo divorerebbe in un istante.

«Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto.»

La loro lotta per la sopravvivenza si svolge in un mondo devastato da un cataclisma sconosciuto, dove ogni giorno è una battaglia contro la fame, il freddo e la violenza. McCarthy dipinge un’atmosfera di desolazione, in cui l’ambiente circostante, luogo dei passi incerti per i protagonisti, è scorticato, con sprazzi di vita tra paesaggi arsi e deserti. Quel mondo diventa un personaggio a sé stante, testimone silenzioso della devastazione in cui è precipitata l’umanità.

«Tu sei molto coraggioso?
Insomma, cosí e cosí.
Qual è la cosa piú coraggiosa che tu abbia mai fatto?
L’uomo sputò un grumo di catarro e sangue sulla strada. Alzarmi stamattina, disse.»

Il nucleo potente de “La strada” risiede nell’intensa relazione tra il padre e il figlio che incarnano la speranza e il coraggio, la resistenza della vita contro la disgregazione di un mondo in totale disfacimento. McCarthy, su un contesto del tutto nuovo rispetto ai suoi abituali ambiti narrativi, esplora ancora una volta la fragilità dell’animo umano di fronte all’orrore e all’incertezza, ma al contempo – raro caso nella sua produzione – lascia uno spiraglio, celebrando la forza dell’amore, in questo caso paterno, e la sua capacità di dare significato anche alle situazioni più disperate.

«Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.»

Questa struggente connessione mette in campo il peso dei sacrifici del padre e la vulnerabilità del figlio, che si affaccia su un futuro incerto.
Con un finale inaspettato, pieno di luce.

«Ce la caveremo, vero, papà?
Sí. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sí. Perché noi portiamo il fuoco.»

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