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Massimiliano Città Posts

E ricambiò il sorriso


Sembravano perle, ma non erano che gocce di sudore. A fatica scivolavano lungo la schiena invecchiata dai giorni impietosi, che pesanti s’erano adagiati su di lui senza chiedere permesso, come accade per la polvere che in silenzio copre i ricordi, i rimorsi e talvolta il dolore.
In quel preciso istante, un istante troppo simile a quello trascorso in un’intera vita, serrava i pugni e stringeva i denti, proprio come gli era sempre stato detto, così come la madre, il padre e i fratelli maggiori gli avevano fatto vedere da quando i suoi occhi avevano preso luce e coscienza.
Era giunto al mondo in ritardo, che nessuno credeva fosse possibile. La madre bianca nel viso e negli occhi, stanca e tirate la mani sul grembo pensava a filare, e non credeva possibile che potesse amare ancora. Ma la tempesta spazza via i campi e il lavoro s’arresta, e la fatica del giorno si riversa dentro cosce e lenzuola, e la forza dell’uomo dura un misero istante, che si perde in un rantolo muto ma conduce alla vita. Era in piena tempesta che il padre lasciò un altro ricordo di sè, un ricordo giunto a scombussolare le notti di una stanza ammuffita dalla povertà, dimentica da tempo del suono dei vagiti, del profumo della pelle candida, del silenzio di uno sguardo fresco di paradiso, che ancora poco si abitua alla luce dell’inferno.
Era arrivato per caso, come spesso accade, e nell’inferno s’era presto calato.
Cresciuto a quel modo, insinuato in esistenze dai ritmi ben scanditi, piegate dalla fatica, calpestate quotidianamente dalla voce del padrone, dal campo d’arare, dalla semina, e dal raccolto che passava di mano in mano senza lasciare traccia,
in quell’inferno era stato lesto a ricavarsi il suo misero spazio. Teso sull’esile corporatura, pronto a combattere, a contrastare gli eventi.

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Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri, porto i capelli neri


Nemmeno ve ne accorgete, ma vi stanno osservando. E più incauti vi muovete nella vostra quotidianità, più vi affannate a darci dentro nelle beghe di ogni giorno, nei salassi della vita, nelle bollette in fila da pagare, nelle mogli che vi cornificano col sorriso da santarelline, negli amici che non attendono altro che le vostre lacrime caschino sul piatto, più fate tutto questo, cioè vi distraete da loro, più detengono il controllo delle vostre vite.
Vite, direi parvenze, è molto più preciso.
Non esistono vite che loro non vogliano tali, dunque siete, siamo, sottinteso, parvenze della loro volontà. E non sono dei, niente affatto, ma controllori. Qualcuno incomincia a sussurrare che io stia diventando matto, crede che non senta, ma ho orecchie vigili, come da giovane mi muovevo in trincea, taccuino a portata di mano, pronto a raccontare. Allora ero disilluso e carico d’adrenalina, allora l’amore per la vita, la vita stessa mi distraeva da loro, e non vedevo oltre il palmo del mio naso. Mi specchiavo nella mia sete di potenza, nella voglia di assaporare il mondo, e distraendomi a questa maniera non scorgevo il riflesso dei loro occhi puntati su di me. Come su di voi del resto, sebbene in pochi credo possano fregiarsi d’aver avuto una vita intensa come la mia. Nessun senso avrebbe avuto tutto quel mio scrivere, le parole, i paragrafi, capitoli messi in fila uno dopo l’altro, se la mia pelle non avesse portato i segni di quelle esperienze, se la mia anima non si fosse nutrita di esse. Ho vissuto nonostante per gran parte della mia vita, distratto evidentemente da essa, non mi sia accorto di come loro mi osservavano, carpivano ogni mia mossa, anticipavano ogni pensiero, qualsiasi bagliore di volontà o assuefazione nei miei occhi loro lo vedevano bene, prima che io stesso potessi accorgermene.

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Lettera dalla maremma


La notte scende lieve, ma sa di far rumore, e forte batte dentro me.
Tra le fronde dei rami, nella distesa di cipressi che si muove oltre le fragili pareti di casa, il vento s’insinua e non sa dormire.
E gioca e ritorna, e sale lento per poi scagliarsi con foga contro le foglie che vorrebbero trattenerlo, ma si rassegnano a vederlo fuggire via, in attesa che ritorni.
Come me.
Il vento.
Bofonchia che non è questo il modo di vivere, di tirar al mattino prima che il sole si svegli e colori la strada, con le dita intirizzite dal gelo, che poco sanno di quel che toccano, e poco riescono a distinguere nel freddo dell’alba che ancora deve giungere. Il vento dice da giorni a modo suo che non è bene ritornare la sera quando le ombre confondono foglie e occhi spenti. Il vento, che nonostante se ne stia in giro per la gran parte del giorno sa di non esser solo quando la pioggia inizia a scendere, a mescolarsi, a danzare per l’aria, a svegliarti nel tepore di una notte troppo presto spezzata dal trillo insolente di una voce meccanica che mi invita a mettermi in cammino.

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Un blues randagio


Ogni volta che sto per attraversare la strada penso a lui. A tutti gli anni trascorsi insieme, alle folli corse ad inseguire il vento, alle giornate in cui con lo sguardo radente terra provavamo a risollevare i nostri passi alla ricerca di qualcosa da mettere in pancia che potesse darci la forza per andare avanti. Ogni volta che piego la testa per scorgere il via libera ad un incrocio la sua immagine si posa sui miei occhi, poi come una lacrima cade. Fosse anche per un istante ma tutto questo avviene, e mi rattristo. Non vi nascondo che nel corso di una giornata m’accade spesso di passare da una sponda all’altra della strada, e non di rado guardo oltre il mio fianco, dove non ho ancora perso l’abitudine di ritrovarlo.
Lì, davanti a me.
Sopratutto nelle giornate di pioggia dove tutto diventa più difficile, in quelle giornate di tempesta in cui il vento solleva la polvere e la mescola all’acqua e disegna traiettorie di fango e luci che sbarrano il cammino, il ricordo di lui viene forte come il rombo di tuono che squarcia il silenzio delle lunghe notti di gelo.

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Ceneri sul marmo


Qui, ai margini di una siepe, oltre un filare muto di cipressi che ondeggiano a ritmo lento, i miei passi si fermano e non fanno rumore.
La custodia sulle spalle, vuota, nasconde il ricordo di quello che è stato, mentre la memoria, la mia, pulsa sulle tempie e batte forte, come a voler uscire dalla testa.
E mi fa male.
Il ricordo di lei.
Il sangue non si rapprende.
Denso e scuro viene giù da ogni parte e ho paura a respirare l’aria intorno per non sentirla entrare dentro, adesso che non respira più.
Il sangue non si rapprende, ancora.
Lo vedo scendere ovunque.
Corre sulle mani e in me si confonde. Non avrei potuto contenere la musica. Tutta la musica degli anni caduti via in un fulmine. Non sarei stato in grado di trattenerla tra le dita smagrite che mi ritrovo, e m’accorgo di non essere in grado di fermare nemmeno il flusso caldo che spegne la vita attorno a me.
Una lama gelida nella quale tutto si specchia e si conclude e si deforma e ritorna in un bagliore di luce impresso negli occhi, ma è solo un ricordo.
Ho esagerato stanotte.

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