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Categoria: Racconti

Ofelia


Si ritrovò tra le mani un vecchio programma di sala, ingiallito, mal piegato e macchiato dalle gocce del tempo. Lo scrutava immergendosi nel ricordo, sapendo bene cosa significasse. Erano già trascorsi vent’anni da quello spettacolo. E quel foglietto che manteneva ai suoi occhi una certa eleganza era rimasto muto e in silenzio tra le sue memorie. Celato tra le pagine di uno dei libri più cari. Uno di quelli che i pochi ospiti graditi al piccolo monolocale avrebbero di certo incontrato, calpestato, spostato dal ripiano della cucina, o tolto dal tavolo insieme a qualche cicchetto di whisky lasciato evaporare. Forse quel volume, dalle parole sgualcite perché troppe volte ricercate, poteva dirsi il suo romanzo preferito. O forse no, chè non era in lui la volontà di definirlo tale o classificarlo in relazione ad altri, di certo era un grande amore, ancora vivo. E in quel viaggio tra le carte che tutto avevano detto prima che il mondo si sbriciolasse davanti agli occhi del lettore, il correttore di bozze s’era spesso perduto, più d’altre occasioni. Fin dalle prime volte che, come in una passione furiosa, aveva scoperto il vizio della letteratura, e non se n’era più distaccato. Peggio della bottiglia, del blues, di Beethoven. Più viziato dalle parole che dalla vita, più lascivo e perduto nelle vicende romanzate che nel calore fuggevole di una fica a poco prezzo. Avrebbe voluto conoscere il viaggiatore di quella storia, lo zingaro che più d’ogni altro personaggio incontrato fino ad allora l’aveva affascinato. Soggiogato anche. S’era spesso chiesto da dove provenisse, e in che luogo avesse ritrovato quelle carte che tutto dicevano.
E poi il nome. Melquiades. E l’idea che s’era fatto.

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Lamor(t)e è reale


Ho pagato per il mio amore, messo alla gogna, additato per la città come qualcuno da calpestare. Un senza dio che non può aver più patria, un uomo che approfitta del suo nome.
Ma qual’è poi il mio, e a cosa mai è servito?
A lenire la fatica del viaggio, forse?
A riempire le pagine dei giornali?
O le tasche del mio sponsor?
No, niente di tutto ciò.
Ho pagato per il mio amore nei sussurri della gente, dentro i mormorii e le stille di veleno cadute giù goccia a goccia in parole calibrate. Ho pagato negli sguardi sfuggenti carichi di rancore, e nei sorrisi stentati che accompagnavano i miei passi.
Ho pagato per la strada. E non conosco salita più ripida della mia stessa vita. Adesso, giunto in cima, scivolo lentamente, senza asfalto sotto i piedi. La temperatura è alta, molto più di quando il sole scendeva a picco sulle nostre teste che si alternavano in vetta alle montagne. Quelle montagne che scrutavamo con sospetto. La fatica spegneva i nostri occhi, senza possibilità di scorgerci così vicini al cielo da poter parlar con Dio. La temperatura adesso è alta, eppure non ho mai avvertito tanto freddo come in questo letto. E nessuna copia di giornale tra la pelle e la maglia può ristorarmi, lo so bene.
Ho vinto ovunque, così dicono.

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E di questo nessuno parla


Le solite cazzate, c’era da immaginarselo. Dissoluta, distillata, evaporata nella notte, come una goccia d’alcol.
Il tabù d’un numero difficile da oltrepassare e bla bla bla, pagine e pagine vergate d’inchiostro nero, corvino, luttuoso, come il colore dei miei capelli. Anche questo m’è capitato di leggere stamani.
La costruzione di un dolore, quotidiano, che t’insegue, mentre vorresti spegnere tutto attorno a te, di questo nessuno parla.
Io sono morta. Lo dicono i giornali, lo grida la gente, e qualcuno piange pure. Sono morta, ma non ieri. Di questo nessuno parla, nè urla, ma tace.

Che tipo eccentrico quella lì, null’altro di diverso sapevano dire. Bella voce, particolare, un modo di graffiare l’anima. Sì, in qualche modo quello scricciolo di donna ti viene dentro, e lì si ferma più di un istante. Il tempo necessario per lasciarti qualcosa a covare. Nel bene e nel male. Non c’è frivolezza nel suo incedere. E’ lento, pesante, fastidioso talvolta, ma rimane dentro. Forse ne facciamo un simbolo del soul, è da qualche anno che non produciamo qualcosa di scoppiettante. Quel tipino lì, con le gambe storte e barcollanti, e quello sguardo che a incontrarlo per strada non noteresti neppure, quel tipo lì, diciamo ha un non so che. Un non so che ci può far tirar su un bel gruzzolo. Le labbra, sì, il modo in cui le stringe, e quando parla, e canta. Dà la sensazione di esser pronta a far l’amore in ogni sospiro. Punterei su di lei, nuova regina del soul. Il trono è vacante del resto. Ma dobbiamo costruirle attorno qualcosa di significativo. Che se ne parli, ad ogni modo. Forse sarebbe meglio farla finire dritta dritta in gattabuia.

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Aforismi del correttore di bozze (1998-2011)


Quando si bruciano lettere il vento dovrebbe essere nei paraggi. Lì a raccoglierle, per non disperdere del tutto la vita che hanno raccontato.
27 giugno

I sogni sono come una pedata nel culo, devono spingerti a smuoverlo!
26 giugno

Ogni trasformazione o cambiamento non è altro che lo svelamento a se stessi di quel che si è.

Non sono stato mai così solo come adesso in mezzo a tutti voi.
24 giugno

Vorrei dormire un paio d’anni

Accade di ritrovarci tra le mani bricioli di felicità che sdegnati lasciamo scivolare a terra, in attesa di un pasto migliore. Poi, volgiamo lo sguardo altrove e la vita finisce. Soltanto allora ci rendiamo conto d’averla vissuta aspettando.
28 maggio

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Lettera a me stesso


Carissimo me, forse in qualche modo continuo a scriverti ma non riesco a lavarmi il cuore, né le ferite. Neppure il puzzo di fritto che porto addosso dall’infanzia scivola via, per quante parole riesca a mettere in fila.
Seduto.
Qui, gambe distese, schiena piegata in barba alla perfetta postura, e braccia tese, e mani in cerca di una donna distante. Seduto a sentire l’eco di un battere incessante. E non è la tastiera che freme, ma i miei denti che non la smettono di tremare. Forse il freddo della verità li tiene svegli, a batter il tempo di una musica che non riesco ancora a capire.
Non sono stato in grado di metter su un centesimo, neppure di decorare la mia bacheca con un titolo onorifico, uno di quelli che faccia gridare meraviglia. Ammirazione, e lode. Figlio di viandanti caduti in disgrazia. Nell’errore di un destino migliore che non hanno deciso d’avere, eppure poche lacrime e sospiri d’un vagito a venire hanno tracciato la strada del loro cammino.
Ho fatto migliaia di lavori, come prima mio padre, e prima ancora mio nonno, e credo forse suo padre. Ho lavorato nei giorni di festa, ma non ho concluso mai la paga d’un mese. Fuggito via prima che da qualche parte una stridula voce potesse dire “bene, assunto, confermato, ci vediamo”. Via, prima che il giorno divenisse prigione del mio disordine. Via, in panne, come un’auto dal fascino antico che non ne vuol sapere di fare strada e andare.

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Uno straccio e profumo d'ammoniaca


Da tre settimane non toccava un goccio. Niente soldi per farlo, neppure un centesimo per poter dire “adesso questo, domani il resto!”. Da tre settimane non saliva sacchetti della spesa colmi delle più raffinate schifezze preconfezionate, come era solito fare sperperando in un pomeriggio le poche decine d’euro che riusciva saltuariamente a racimolare. Confezioni colorate, provenienti dalle comunità più esotiche e lontane, e dritte a sfarinarsi sulla tua tavola, schifezze di quelle che ogni moderno supermarket sa darci. Non aveva denaro per nulla, e rovistava in casa alla ricerca delle sue distrazioni. S’aspettava che in momenti come quelli potessero venire incontro alla sua miseria, a lasciar lungo il cammino dell’angusto monolocale cicche non del tutto finite, e fondi di bottiglia, e fondi d’esistenza da scolare. Sentiva freddo intorno e oltre ogni limite dentro sé, ché sapeva bene d’aver attinto a tutte le risorse. Da mesi s’arrabattava a farlo. Aveva per un istante considerato il termine risparmio, ma era stato un attimo appena. S’era dato subito a sperperarlo per la stanza ripetendolo come un ossesso, mentre saltellava seguendo il ritmo di una canzone retrò di Billie Joel.
Discese al secondo piano.

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