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Categoria: Racconti

Lettera di una vedova ad un editore


Caro direttore,
forse ciò che le scriverò non avrà alcuna importanza per lei, né interesse particolare per la linea editoriale che la sua prestigiosa casa editrice da anni percorre. Ma non riuscirei a vivere i giorni che mi restano in un equilibrio che potrei (se ancora posso) chiamare vita. Non sono una scrittrice, né ho la presunzione d’esserlo con queste poche righe che accompagnano il dattiloscritto di mio marito. Un malloppo di pagine composto negli ultimi mesi di vita. In qualche modo dovrò raccontare di come sia arrivato a tanto, e delle condizioni che, purtroppo, adesso portano me a scrivere in vece sua. Ripeto non sono una scrittrice, mai ho provato a farlo, non saprei in che modo iniziare, lascerò che l’istinto guidi le mie idee, com’era solito dirmi lui, nei racconti concisi che riuscivo a carpire dalle sue labbra.

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Di una bellezza leggera


I miei hanno provato in tutti modi, ma alla fine ho deciso io. La scuola m’era sempre venuta stretta, come un vestito che ti trattiene nei movimenti e li lega, e frena ogni libertà senza neppure coprirti in maniera confortevole. Certe volte hai la sensazione che ti venga a mancare l’aria, e arranchi nel vestito, e provi e riprovi ad allargare il colletto, soltanto dopo ti accorgi di non averlo, di non averlo mai avuto, forse, e il panico ti prende, perché non riesci a capire cosa stia a stringerti forte il collo. Credo sia il disagio, una presa invisibile che non ha colore né profumo, ma soffoca. Il disagio di una vita non tua che si ostinano a farti calzare.
Non appena ho potuto me ne sono uscito fuori.
Ho fatto un po’ di lavoretti in giro per la città, sono stato a zonzo, uno sbandato per molti, uno dei tanti in città. Faccendiere oggi, meccanico altre volte, perfino panettiere per qualche notte, ma gli orari, quelli lì, non riuscivo a mandarli giù, sebbene il gusto del pane appena sfornato sia una delle cose per cui vale la pena vivere in questa fogna.
Poi, ho camminato, e ho camminato parecchio per le strade di questa città, col pallino della lettura. Questo sì, m’è rimasto degli anni di scuola, tanto che mia madre me lo rimprovera ancora oggi. Su quei libri, sconci mi diceva, aveva scorto un po’ di Bukowski tra le mie carte, ne hai perduto di tempo, quando avresti potuto metterti davanti dei buoni manuali di legge e diventare migliore. Migliore forse di quello che sono, differente, ma non ho controprova, né mai ne avrà mia madre. Deve prendermi per quel che sono, e ogni santa domenica lo fa. Il pranzo concessoci dal buon dio è qualcosa cui non si può sfuggire, la scuola magari sì, ma la domenica, la domenica è sacra. E lì con mio padre a scherzare, con la malinconia nello sguardo, a ricordare di quello che ero, ragazzetto irrequieto, sgusciante per i vicoli malfamati, per i quartieri che pochi osavano sfiorare, ed io invece lì, dentro.
Conoscitore e conosciuto.

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Alla fine


Alla fine hanno hanno chiamato la puttanella. Di certo più adatta al contesto, senza ombra di dubbio. Con occhietti e forme da pin-up, avrà la scena tutta per sé. Hanno scelto la giovane emergente, a discapito della mia decrepita vecchiaia, che sei condannata a vedere ogni giorno, mia cara. L’hanno scelta bene, niente da dire. Luccicante, pronta a raccogliere le luci dei fotografi di tutto il mondo. Lì, schierati come un plotone d’esecuzione, in fremente attesa, magari di un passo falso, una caduta, uno scivolone dei regnanti senza corona che s’accingono a debuttare. Loro, in formazione d’attacco, pronti a colpire con proiettili fulminanti, che catturano il momento, s’illudono di farlo. Stanno impalati, anche per ore, puntando, rigidi sulle gambette, in attesa. Di un qualcosa che vada storto. Perché le grandi notizie nascono da lì, lo sappiamo, dai guai. Mai che uno scoop memorabile sia venuto fuori dalle bellezze del mondo, non lo ricordo, e non penso di sbagliarmi, magari, chissà, forse, come tutto. Che dirti? Sono caduta in errore molte volte e per questo non ho mai pensato di far la morale a nessuno, né di mettermi ritta in piedi, ferma sui miei saldi principi, a predicare. Il vento avrebbe sorriso delle mie parole, ne sono certa, si sarebbe impettito sugli alberi, sfrondandoli del superfluo, di tutto quel superfluo che le mie parole avrebbero caricato per la strada, la mia. Ho semplicemente provato a viverla questa donnaccia d’esistenza, che molto promette e poco concede, e ho cantato una manciata di blues, e senza ombra di smentita, non amo le false modestie, ecco, posso affermare che qualcuno di questi m’è uscito fuori veramente bene, sfido a farlo meglio di me, a cantarlo, dico, a viverlo, forse. Ho scelto mia cara, e sbagliato. Ma in una vita degna d’esser chiamata tale, in una vita vissuta, come dico io, è necessario sbagliare. La misura dell’errore ti da la grandezza della scelta, e poco male che le cose vadano a puttane, ne siamo

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Viaggio immaginario di un giovane musico ateniese


All’epoca in cui si era soliti discutere per la strada, passeggiando verso l’agorà, abituale luogo di ritrovo delle menti più eccelse e dei mercanti più accorti della città, uomini rimanevano assorti in dissertazioni più o meno profonde sull’essere e il mondo, il denaro e l’affare, la bellezza e la sua idea; all’epoca in cui l’uomo sapeva di poter rispecchiare la natura in tutto quel che faceva, all’epoca in cui il dotto scherniva il fango e l’argilla e le mani che la plasmavano, all’epoca in cui tutto era imitazione, secondo canoni e armonie, e per nulla creazione, all’epoca in cui la musica era numero e non suono, a quell’epoca dunque, viveva un bimbo lontano da quel mondo, escluso dai rituali della città, il piccolo Meloi, privo della parola e senza riflesso negli occhi, si aggirava tentoni per i vicoli del borgo. La madre, una donna mite e gentile, lo accudiva, per quanto le era possibile con sentimenti che spesso si confondono: dedizione e amore. Il padre, un uomo immerso e rapito dall’alta società, impegnato su grandi orizzonti, per nulla partecipava alla crescita, e alle conseguenti vicissitudini del figlio.

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Il valore di un centesimo


Certe volte penso che tutto abbia avuto inizio da quel lancio di moneta. Il mio cammino, la curvatura della traiettoria che m’accompagna ancora, e tutto ciò che adesso sono e guardo nello specchio. Senza grandi entusiasmi, ma neppure laceranti delusioni.
Stavo lì, fermo sul passo, come spesse volte mi è accaduto. Giochicchiavo con una monetina, e ne soppesavo la consistenza. Quanto valore può avere un centesimo nella vita di un uomo, e quanto valore ha una menzogna? Quante vite puoi nasconderci dentro, dico dentro una menzogna, e quante altre puoi cancellarne d’un tratto?
Giochicchiavo col mio centesimo d’insignificante valore, e i miei pensieri. E ad ogni lancio una parola ed un pensiero venivano giù. Sulla mia mano, una mano povera, piccola per poter contenere tutto ciò che è stato.
Sono trascorsi mesi da quell’incontro. Adesso mi ritrovo al mattino a contare le ferite. In un cesso che sa di me più d’ogni angolo di questo monolocale. Rimango qui a fissarmi, come se non riuscissi a riconoscermi. Davanti ad uno specchio, misero, come gran parte delle cose che mi circondano. Ferite che lo specchio non mostra, che la gente non vede, che la gente non veda. Quelli dal buon parlare le definiscono lacerazioni, lacerazioni dell’animo. Io le chiamo rotture di coglioni, ovvio che loro non rispondano. Se ne stanno mute, zitte zitte dentro me, e piegano, come un’ulcera, quello che posso considerare spirito. Gravano i miei passi nel cammino quotidiano. Avrei potuto benissimo farne a meno, avrei voluto. Eppure accade talvolta di scivolare sulle proprie debolezze, e lei è stata la più fragile che m’abbia colto in fallo, fino adesso. Ok, col senno di poi avrei potuto adottare tutti i mezzi opportuni per rendermi immune alla sua vocina d’incanto, gli occhi languidi che mi scivolano lungo la figura, e come in un abbraccio virtuale mi avvicinavano a lei. E mi prendevano.

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Un Laphroaig, e un altro, e poi un altro ancora.



Stava sistemando le sue scartoffie, e nel contempo considerava la particolarità di quella parola. L’aveva appresa in qualche romanzo americano, o gli era rimbalzata alla mente venendo fuori dallo schermo di un televisore? Ecco, non avrebbe saputo dirlo ma di certo nutriva una certa simpatia verso quel termine, così vago.
Scartoffie.
E ne aveva a bizzeffe sul tavolo, sull’amica poltrona che non riusciva più a dargli il solito riposino pomeridiano. Non ricordava neppure da quanto non riuscisse più a ritrovarsi nella posizione fetale che tanto amava assumere, come se nascosto dentro l’ancestrale postura il mondo non avrebbe potuto scalfirlo più di tanto. Gli mancava la serenità che era certo avere avuto qualche tempo addietro, o così almeno credeva.
Eppure aveva scartoffie, e ne aveva a bizzeffe.
E anche sul bizzeffe avrebbe potuto soffermarsi chiedendosi perché quella parola e non altre.
Come a iosa, per esempio.
O in quantità.

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Io un lavoro ce l'ho


A chi lavora per un pezzo di fame
e nessuno conosce.

Andrea l’ho conosciuto un pomeriggio d’estate. Eravamo scese al mare. In una giornata particolare. Non accadeva spesso di prenderci un pomeriggio tutto per noi. Eppure quella volta, io, Gianna e Adriana pensammo di farlo. Di dedicare un po’ del tempo concessoci dal buon dio a noi stesse. Nonostante Adriana avesse messo il freno all’iniziale entusiasmo. Si sentiva grassa, fuori forma, e quasi piangeva perchè il costume che aveva indossato appena l’estate prima non ne voleva sapere di entrarle. O meglio, lei, e lo diceva tra il sorriso e la lacrima, aveva provato in tutti modi ad infilarcisi dentro, ma niente. S’era perfino sfilato nell’allacciatura della parte superiore del bikini. Alla fine Gianna, che in realtà è taglia forte, le prestò uno dei suoi. E comodamente anche Adriana ha potuto passeggiare lungo la spiaggia con noi. È bastato poco in verità. Qualche schizzo d’acqua, una corsetta e gli occhi di un gruppo di ragazzi a puntarci tutto il pomeriggio per tirar su l’iniziale tristezza di Adri.

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Invitation to the blues


La pioggia scendeva fitta e lieve sulla strada. Goccia a goccia estenuante ritmo della natura, in un concerto che il caos metropolitano non permette di ascoltare. L’assenza del vento la faceva cadere dritta sulla faccia, la sua. Camminava incurante, senza ombrello, nè altro tipo d’indumento che potesse metterlo al riparo dal piscio del cielo. Camminava mentre la gente lo scrutava con occhi sospettosi.
Il correttore di bozze continuava nel suo andare, e se qualcuno avesse potuto mirarlo da vicino sarebbe rimasto ancora più di stucco. Camminava nella pioggia e a ogni passo ne seguiva il ritmo. Camminava e abbozzava un sorriso, come in preda ad una crisi isterica.
Così dava l’impressione fosse.
Così non era.
Poteva dirsi felice, in qualche modo.
O pieno di soldi. Era stata una giornata di grazia.
Considerava che mai negli ultimi anni s’era ritrovato in tasca tutto quel denaro. E a pensarci bene non è che nel corso della vita, almeno fino ad allora, fosse stato avvezzo a maneggiarne.

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L'uomo allo specchio

Ora che sono morto
sento la vita scorrere dentro le vene
quasi a volerne uscire fuori.


Si svegliò che non era mattino. La luce tenue della luna lasciava una scia sinistra dentro la cella. Le nuvole riverberavano in cielo, come sospese in attesa del giudizio. Ma non si udiva il grido del corvo nell’aria a mozzare il respiro. Nè gli occhi brillanti della nottola appollaiata sul ramo, soltanto il brillare dei suoi.
Il condannato a morte.
Aveva trascorso del tempo là dentro, ma a primo impatto non sarebbe stato in grado di dire quanto. Aveva smesso fin da subito di contare i giorni, l’alternare delle stagioni e l’incedere degli anni. Tutto scorreva dentro, silenziosamente come se niente passasse in quell’esile corpo. Nei muscoli tesi e scarni di un vivere modesto. Dormiva e leggeva. Pisciava. E mangiava poco, aveva perduto fin dall’inizio il gusto per le cose. Non c’era niente da scoprire là, in quella stanza che da secoli accoglieva gelo e scirocco alla stessa maniera. Pochi metri quadri dentro cui racchiudere un mondo. Scambiava qualche parola con i vicini di cella, sempre diversi, sempre con storie intense da raccontare. Loro. Storie che si svolgevano aldilà del fiume.

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L’incantatore di serpenti

 

Sono cresciuto tra le braccia di mia nonna, e in compagnia della voce che fin da bambino mi cullava durante le notti insonni. C’erano giornate in cui era difficile andare avanti, eppure le carezze di quella donna quieta le rendevano migliori. Aveva storie da raccontare. Storie di guerra, e fame, e dolore. Il suo sguardo si spegneva volta dopo volta. Il fulcro delle vicende era sempre mio nonno e la difficoltà del vivere, e la paura di non vederlo più tornare a casa, come un giorno accadde. Imparavo da lei e dalle sue canzoni, ascoltavo da lei le storie del passato e talvolta dentro di esse mi perdevo. Ma di una in particolare chiedevo mi raccontasse, più delle altre, più della fame nascosta tra i denti di una guerra fratricida, come ogni guerra sa essere. Più delle bombe schivate e delle fughe romanzate, mescolanza di memoria e invenzione.
La mia storia preferita nonna l’aveva intitolata “L’incantatore di serpenti”.

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