
La barba folta e i capelli ricci, fittamente ricci, la camicia rigorosamente a fiori, come fosse stato un americano in vacanza, una collanina sempre in vista oltre la villosità del suo petto prestante. Le spalle arcuate, leggermente arcuate ad ingobbirlo un po’, rendendone grottesca l’enorme stazza. Ed un passo fermo, e roboante, ricordo ancora l’eco del cammino lungo le stanze.
Considera l’incanto della follia, mi andava ripetendo.
Gattoni gattoni scivolava con me lungo i corridoi del vecchio magazzino, il mio ancestrale rifugio oltre il quale già bambino chiudevo fuori il mondo e la sua miseria. A quel tempo avevo capito molto di più di adesso. Avevo intuito in verità, perché le strutture mentali di quell’età non mi permettevano di comprendere fino in fondo, adesso non so più bene cosa. Allora avevo intuito che il mio cammino sarebbe andato per vie traverse, e forse sempre sbagliate per quanto mi sia ostinato a mantenermi ritto sulle caviglie, avevo capito che era meglio implodere, chiudersi in sé, o dentro un mobiletto di truciolare candido e leggero.
Adesso non so più bene cosa avrei potuto capirne del mondo allora.
L’incanto della follia, che stranezza.