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Massimiliano Città Posts

Stralci d'incanto


 

La barba folta e i capelli ricci, fittamente ricci, la camicia rigorosamente a fiori, come fosse stato un americano in vacanza, una collanina sempre in vista oltre la villosità del suo petto prestante. Le spalle arcuate, leggermente arcuate ad ingobbirlo un po’, rendendone grottesca l’enorme stazza. Ed un passo fermo, e roboante, ricordo ancora l’eco del cammino lungo le stanze.
Considera l’incanto della follia, mi andava ripetendo.
Gattoni gattoni scivolava con me lungo i corridoi del vecchio magazzino, il mio ancestrale rifugio oltre il quale già bambino chiudevo fuori il mondo e la sua miseria. A quel tempo avevo capito molto di più di adesso. Avevo intuito in verità, perché le strutture mentali di quell’età non mi permettevano di comprendere fino in fondo, adesso non so più bene cosa. Allora avevo intuito che il mio cammino sarebbe andato per vie traverse, e forse sempre sbagliate per quanto mi sia ostinato a mantenermi ritto sulle caviglie, avevo capito che era meglio implodere, chiudersi in sé, o dentro un mobiletto di truciolare candido e leggero.
Adesso non so più bene cosa avrei potuto capirne del mondo allora.
L’incanto della follia, che stranezza.

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Lettera a me stesso


Carissimo me, forse in qualche modo continuo a scriverti ma non riesco a lavarmi il cuore, né le ferite. Neppure il puzzo di fritto che porto addosso dall’infanzia scivola via, per quante parole riesca a mettere in fila.
Seduto.
Qui, gambe distese, schiena piegata in barba alla perfetta postura, e braccia tese, e mani in cerca di una donna distante. Seduto a sentire l’eco di un battere incessante. E non è la tastiera che freme, ma i miei denti che non la smettono di tremare. Forse il freddo della verità li tiene svegli, a batter il tempo di una musica che non riesco ancora a capire.
Non sono stato in grado di metter su un centesimo, neppure di decorare la mia bacheca con un titolo onorifico, uno di quelli che faccia gridare meraviglia. Ammirazione, e lode. Figlio di viandanti caduti in disgrazia. Nell’errore di un destino migliore che non hanno deciso d’avere, eppure poche lacrime e sospiri d’un vagito a venire hanno tracciato la strada del loro cammino.
Ho fatto migliaia di lavori, come prima mio padre, e prima ancora mio nonno, e credo forse suo padre. Ho lavorato nei giorni di festa, ma non ho concluso mai la paga d’un mese. Fuggito via prima che da qualche parte una stridula voce potesse dire “bene, assunto, confermato, ci vediamo”. Via, prima che il giorno divenisse prigione del mio disordine. Via, in panne, come un’auto dal fascino antico che non ne vuol sapere di fare strada e andare.

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Hakuna matata


Norby ha 22 anni, Milena 26. Entrambi sono ungheresi, entrambi studiano l’italiano. Nei tempi morti. Norby è stato spesso a Perugia. La sua ragazza, Francesca, studia là. Milena non ha mai messo piede sullo stivale, eppure studia, perché vorrebbe un giorno lavorarci in Italia. Certo non pedalando come fa per le vie della città olandese.
Entrambi attendono a margine dei ponticelli che abbracciano i canali da una parte all’altra. Attendono sui loro colorati ed eccentrici risciò ciclistici, con manovra assistita, e t’invitano a salire per un’esperienza incredibile. Attendono sfogliando libri o strimpellando improbabili ukulele. Qualche turista salta a bordo divertito dall’idea d’esser portato per la città a ritmo di pedalata. Il viaggiatore prolunga il suo cammino su quei tubolari arrugginiti dall’umidità. Alla maniera di de Andrè che vedeva possibili le corde della sua chitarra come prolungamento delle dita.

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Respiri distratti


Accade talvolta di ritrovarsi presi da particolari odori, o profumi, che vigliaccamente ci prendono la mente e la distraggono dall’attenzione che vorremmo riservarle, portandola oltre i nostri stessi pensieri. In memorie distanti, dentro occhi che avresti voluto spegnere in tempo, tra le fragranze di lavanda che hanno il sorriso di nonna, nelle zaffate stantie di armadi rosicchiati dalle tarme e dal tempo nei soffitti di case vendute in fretta. La mente scivola via seguendo la scia del profumo e si perde nella pelle nuda di chi hai stretto tra le labbra, nell’odore acre di un cammino stentato, sudato, maledetto, nel puzzo di fetide carcasse ambulanti che inevitabilmente ci si ritrova a dovere incontrare.
Gli odori sono parte integrante della nostra memoria, e non di rado la supportano. Annotare un odore diviene particolarmente arduo per chi usa le parole.
Ci sono profumi che il viandante non potrà dimenticare, né vorrà raccontare, di altri, di quelli vivi in questo viaggio, prova a tracciarne una piccola scia.

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Contrabbassi ondeggianti



Ogni viaggio ha un suo ritorno, come per dire che ogni medaglia ha un suo risvolto, ogni candela ha il suo gioco (che alla fine, si sa, non vale mai la cera – e su questi sottili giochi di parole il viandante adora perdersi, dunque cercheremo di riportarlo alla memoria, così che possa raccontarci).
Dunque ogni viaggio ha un suo ritorno.
Per quanto si rimanga fermi sui propri passi si finisce col ripercorrerli a ritroso nella memoria. Questo accade al viaggiatore, che volutamente sprovvisto di taccuino tecnologico
riavvolge il nastro di colori, suoni, voci e profumi di tulipano e annota, per quel che meglio crede valga esser annotato.

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Le scale irte t'insegnano a salire


Scrivere di un viaggio è provare a rifarlo, magari evitando gli errori.
E forse scrivere della propria vita potrebbe essere la soluzione agli errori che verranno, ma so bene che non sanno leggersi dentro, dunque si presenterebbero davanti ai miei passi, invitandomi ad entrare.
Non è facile scrivere, figurarsi vivere.
Non lo è viaggiare. Per strade che hai conosciuto e t’hanno lasciato un particolare sapore, e d’improvviso ti ritrovi a percorrere cercando di gustarle per come ricordi, ma anche la vita è in cammino e non lascia sapori stantii, in quel caso si parla di morte, ma non sarà oggetto di questa narrazione.

Gonzo non arriva.
E alla seconda pinta il viaggiatore pensa bene di comporre il numero che a stento si riesce a leggere, aldilà del vetro. Dall’altra parte del telefono una voce roca risponde, dicendo che in pochi minuti giungerà davanti all’ostello fantasma. Qui mi preme dire che Gonzo sarà facilmente riconoscibile al lettore castelbuonese o affine. Per chi ha negli occhi Peppe Collesano, ecco, gli tolga i capelli, lo invecchi di una decina d’anni e avrà il Gonzo di Amsterdam. Faccendiere e tutto fare alla maniera del barbiere di Siviglia, per rimanere in tema.

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E attendere Gonzo, si sa, chiunque esso sia, val bene una pinta


Quando il tassista si ferma, soddisfatto, davanti ad una parruccheria per uomo ti chiedi perché, sopratutto se ti sei sparato due ore di volo a zonzo per l’Europa, due di autobus sulle scorrevoli autostrade dei paesi bassi, e principalmente se al posto del coiffeur pensi di trovarci l’ostello che avevi prenotato.
Eppure l’indirizzo corrisponde, e così la via (dal nome impronunciabile).
Dunque il viaggiatore scende col suo carico di zavorra pesante. E, perpelsso, scruta attorno.
Non sembra essere cambiato molto dall’ultima volta.
Il freddo pungente (era d’ottobre, è di giugno), il Susie Saloon pieno di gente d’ogni tipo, le paperette che scivolano seguendo la corrente lenta del canale, e dall’altra parte del ponticello gli avventori che bivaccano davanti al greenhouse.
Un film già visto.

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