Entrò in casa con una strana sensazione di vuoto. Con passo distratto. Tolse la giacca che sapeva di tabacco, l’appese all’unico pomello rimasto integro del piccolo appendi abiti all’ingresso e rimase a fissarsi allo specchio. Non aveva che quarant’anni, una calvizie incipiente, la barba ribelle che di settimana in settimana lo solleticava. Qualche fascinosa ruga, dicevano, che impudente come un bacio non voluto attorno alle labbra disegnava un aspetto profondo, come a voler sostenere le parole che venivano fuori copiose dalla sua bocca nelle sere di bisboccia. Non aveva che quarant’anni eppure i suoi occhi brillavano di luce antica, ed erano stanchi, questo lo sapeva bene. S’era sempre considerato, in maniera enfatica e malinconica, un vecchio di mille anni. Non ne aveva così tanti da dover sopportare sulle gambe, eppure gli pesavano d’una stanchezza particolare quella sera. Inciampò nel voltarsi verso il tavolo del salotto e di riflesso sorrise pensando a tutte le volte che era ritornato sbronzo, volando come un atleta lungo le scale, senza prender l’ascensore, nemmeno a pensarlo, per l’angoscia di rimanerci secco.
Dentro.
Avvertiva un particolare disagio non appena infilava il suo naso nei luoghi chiusi, particolarmente soffriva l’ascensore e non si trovava a suo agio al cesso. Chè si sa i cessi sono spesso angusti, e manca l’aria, eppure in tutti quegli anni gli era capitato di rimuginare su molti pensieri intanto che espletava. Riusciva a meditare in quel luogo, per quanto ridotto.