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Il cucciolo


Il vento spazza la strada. Qualche passo l’accompagna. Non si sentono voci in giro. L’eco delle campane si spegne oltre le mura della vecchia città, mentre cerco di ripararmi dalle folate gelide dell’inverno. Le case crepitano di passi assonnati, le finestre s’illuminano lentamente, schiudono lo sguardo verso il mondo, uno sguardo ancora appannato dal tanto dormire. La pioggia ha imperversato tutta notte, e adesso sale lento l’odore dell’asfalto, lacerato dal trambusto delle auto che si è da poco svegliato. Io da parte mia non ho chiuso occhio. Sono rimasto a vagare, cercando di salvare la pelle, come accade da anni. Certe volte capita di ritrovarsi stanco lungo il cammino da perdere l’orientamento, e basta un attimo per rimanerci secco. Lì, sul bordo della via. Basta riflettere se attraversare verso nord o no, basta fermarsi un istante, mentre il camion sfreccia lungo la sua linea immaginaria che non prevede d’incontrarti, e non fa nulla per evitarti. E tu, lì, immobile nella tua idiozia. Con gli occhi ancora lucidi di lacrime e dolore scorgi da terra quello che di te rimane. Ne ho visti tanti morire così. Spenti nel volgere di uno sguardo. Finiti stritolati dalla frenesia di una vita che non ci appartiene, eppure ci uccide senza chiedere scusa. Ne ho lasciati di amici lungo il cammino, alcuni col sorriso tra le labbra, senz’aver avuto nemmeno il tempo di pisciarsi addosso dalla paura, o considerare di muoversi, fuggire, scappare allo stridere di freni che si bloccano un passo oltre la vita. La nostra. Ne ho visti morire così. Ed ogni volta mi rimane soltanto lo scuotere del capo, e niente altro da fare. Se non allontanarsi per evitare di finirci sotto, anche noi. Mi ritrovo a vagare nel respiro della città che si sveglia dal torpore notturno e si mette in moto, ed io a ritagliarmi un piccolo cammino al sicuro, radente le umide pareti di costruzioni cadenti, attento a scansare frammenti di vetro venuti giù, incapaci di reggere alla furia dell’esistenza. Bivacco al margine, seguendo una scia, tra le tante, che mi possa condurre verso qualcosa da mangiare. Quando vagavo per i campi era difficile ritrovare la morte sull’asfalto, poco ce n’era in giro e per niente si attraversava. All’epoca c’era una voce che circolava silenziosa tra noi, starne alla larga, perché qualcuno s’era allontanato, c’era finito dentro, e non ne aveva fatto ritorno. Dunque si scorrazzava per i campi, tra il fango delle giornate cariche d’umidità, in cui l’aria pesa e pesa ogni movimento che fai, e la giornata stanca e stanca ogni passo che dai. Ci si rincorreva quando c’era la forza di farlo, sui campi seccati dal sole che se ne stava lì, in alto, tutto il giorno a puntarci senza lasciare scampo, né qualche pozza d’acqua dentro la quale poterci ristorare. Ero venuto al mondo da poco e seguivo l’ombra dei miei genitori, o di quelli che credevo tali allora. Non s’incontrava la morte nello stridere di freni tirati in ritardo lungo l’asfalto o sotto luci abbaglianti nella notte, pronte a saltarti addosso senza dare scampo. Eppure la morte ci seguiva, lenta come il nostro incedere, e si fermava a guardarci, come a sorridere di noi e della nostra incapacità di ritrovar da mangiare. Ne ho visti stremati dalla fame, accasciarsi all’improvviso, senza salutare, senza alcun sorriso disegnato sul volto, senza la paura negli occhi del pensare è finita, senza la forza del passo da dare, per provare a resistere ancora una notte. Poi ricordo venne qualcuno a prenderci. Ci caricò in uno di quei mezzi che molti di noi ha lasciato senza vita, e ci ha portato in città. Qui non ho più trovato terra umida sotto le mie dita, ho potuto alleviarmi dal sole pungente nascondendomi in ogni anfratto. Ho scoperto che la città ne ha di posti dentro i quali nasconderci, che a saper farlo bene rischi anche di non uscirne più fuori. Ho imparato che le luci ti puntano nella notte, e si fanno sempre più ingombranti, e avanzano seguite da rombi di motore e strombazzate penetranti di clacson senza musica, e ho imparato a fuggire, in tempo, almeno fino ad oggi. Ho imparato anche a farmi rispettare per quello che un bastardo come me può fare. Rimanendo sempre sul filo della precarietà. Oggi qualcosa in pancia per poter andare avanti, domani non so. Ed è in questo andare che mi imbatto in figure solite, note, che allungano le loro zampe verso di me, e mi tendono un sorriso e resti di pasto da consumare all’istante prima che qualcuno più grosso di me mi si avventi alle spalle spazzandomi via e lasciandomi a secco. Ho perduto qualche sorriso in questi mesi, un tipo dalla barba folta che se ne rimaneva tutto il giorno addormentato sulla sedia e qualche volta batteva un buffo martello su delle scarpe, di quel suono non rimane più niente, e neppure del suo brontolio, ne del pane che sapeva bene allungarmi per terra con le mani stanche. Da qualche tempo non vedo più nessuno davanti alla bottega, pertanto tiro dritto verso i cassonetti, così li chiamano. Sono scatoloni immensi in cui ciascuno di noi trova sempre qualcosa di buono. Spesso diventano luoghi di giochi e divertimento. Si strappano i sacchi alla ricerca di qualcosa di migliore, come le nostre giornate, insomma. E ci si rincorre attorno. Si va a gruppi, consolidati. Senza paura d’essere ingannati, d’essere in qualche modo sovrastati. Si prova. Talvolta va bene, altre volte no. Ci sono state occasioni in cui anche in tre o quattro ci siamo dovuti piegare alla foga di chi non mangiava da giorni, e seppur debilitato aveva tanta rabbia in corpo da spazzarci via come ramoscelli secchi. Ho imparato che in questi casi è meglio starsene alla larga, per lasciar attaccata la pelle al resto. Oggi mi ritrovo solo per il solito cammino. Al solito posto il carico è pieno, sacchi lasciati per la strada, cassonetti stracolmi, ogni cosa lì per chi vuole servirsene. Annuso un po’, cerco di prendere il meglio da ciò che è stato abbandonato nella notte. Un odore forte però copre gli altri, lì nell’angolo. Un piccolo sacchetto nero, sembra muoversi addirittura. Mi fermo guardingo. Ho imparato anche che in certe situazioni ti tirano scherzi non da poco. Ho visto il muso d’un compagno di viaggio venir via di netto dal morso violento di un ratto metropolitano, e non vorrei proprio lasciarci il mio allo stesso modo oggi. Mi avvicino in allerta, eppure i movimenti non sembrano portare pericolo. L’odore è forte. Quel sacchetto sprigiona un sentore strano. Non m’è mai capitato di ritrovarmi in una situazione del genere. Eppure la curiosità la vince, e mi lascio andare. Scuoto, un colpo secco al sacchetto che si lacera come tutti. Uno squarcio largo mi mostra subito il contenuto, ma non credo possa essere così. Dunque lo afferro, con più leggerezza per quel che sono capace, e lo porto alla luce della strada. Il sacchetto cede sempre di più al mio sforzo, e il contenuto se ne resta lì. Con un fare strano, le zampe tirate all’insù e gli occhi che cercano attorno. Un cucciolo che non m’appartiene. Lo afferro per la pelle e lo porto ancora più alla luce in attesa che qualcuno della sua specie venga a tirarlo fuori dai guai.

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